Sento e leggo molte persone che si lamentano per il caldo estivo. Anche io lo avverto, naturalmente. Ma, quando esco dal carcere, penso ai detenuti chiusi in una cella stretta e smetto di lamentarmi per l'afa. Si dice che in galera si sta "al fresco", ma non è affatto vero. In carcere, forse per colpa del ferro e del cemento, si soffre di più il caldo e non entra mai un alito di vento. In prigione non esiste via di mezzo: fa un caldo bestia oppure un freddo boia. L'afa d'estate fa aumentare l'ansia e l'angoscia: le persone recluse dormono di meno, e di notte – mi raccontano – la nostalgia e il desiderio di libertà si fanno più forti. Un po' tutto, con il caldo, diventa più difficile e complicato nelle carceri italiane, malate di sovraffollamento cronico. La stessa tutela della salute stessa diventa un'impresa ardua. Affollamento e promiscuità, in ambienti fatiscenti, sono gli elementi di una miscela esplosiva. Dominano la scena gli stranieri, i tossicodipendenti, i malati psichiatrici. Una babele di lingue, di religioni, di usi e costumi. Alte temperature associate a elevati valori di umidità favoriscono la crescita di muffe e acari. E con l'aumento della temperatura e dell'umidità si moltiplicano gli odori sgradevoli: il caldo torrido, gli spazi ristretti, il sudore, l'uso promiscuo dei servizi igienici... Per non parlare dei rischi di contagio. Nelle celle sovraffollate, prevedibilmente, sono all'ordine del giorno contrasti e tensioni. E io non posso certo voltarmi dall'altra parte, perché diventerei inesorabilmente corresponsabile.
In questa situazione saltano tutti gli schemi di "trattamento" volto al recupero sociale dei detenuti. E saltano tutti gli schemi di controllo medico. Il carcere, insomma, non riesce a realizzare il suo obiettivo istituzionale principale, la rieducazione, ma è un arido contenitore della marginalità della società odierna. Proteste, scioperi della fame, suicidi, gesti di autolesionismo, molto frequenti in questo periodo, sono tutti segnali d'allarme. I detenuti chiedono attenzione. I detenuti chiedono rispetto di elementari diritti. Di fronte a questi abissi di necessità, cosa si può fare? Per cominciare, si potrebbero realizzare luoghi di accoglienza per ospitare i nuovi giunti in carcere, con la presa in carico per il disagio psichico. Poi si dovrebbe organizzare l'intero ambiente carcerario in modo rispettoso della dignità umana, anche con spazi per coltivare gli interessi affettivi. E bisognerebbe prevedere, qualche regione l'ha già fatto, l'inserimento dei detenuti tossicodipendenti in comunità terapeutiche. Inoltre, occorre mettere la magistratura di sorveglianza nelle condizioni di valutare con maggiore appropriatezza la compatibilità o meno con il regime carcerario: i detenuti seriamente malati non possono e non devono stare "dentro". Bisogna incrementare le misure alternative al carcere. Non si deve far ricorso al carcere per regolare le situazioni critiche del Paese, per assicurare risposte al bisogno di sicurezza dei cittadini. Non si può ricorrere sempre ed esclusivamente al carcere per neutralizzare la povertà, il disagio, la marginalità.
Padre Stimmatino, cappellano Casa circondariale maschile "Nuovo Complesso" di Rebibbia
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