Ma il critico dev'essere obiettivo? No Ecco Virginia Woolf sull'«Ulisse» di Joyce
sabato 13 giugno 2009
Siamo abituati a pensare che la critica letteraria deve essere obiettiva e non soggettiva. Ma l'io del critico e del recensore può mascherarsi e nascondersi, non cancellarsi. In ogni interpretazione e valutazione, come in ogni modo di leggere un libro, c'è sempre qualcosa di personale. È meglio, perciò, che il critico metta in gioco e dichiari le sue ragioni. È meglio, cioè, che una recensione e tanto più un saggio conservino, almeno in qualche punto, il tono di un diario di lettura. Non chiederei mai a un critico di avere ragione o di dire la cosa "giusta", ma di farmi capire bene quello che pensa di un libro e quello che ha provato leggendolo, anche se non posso condividerlo. Per farmelo capire bene può compiere lunghe analisi o essere brillantemente sbrigativo: quello che conta è che la soggettività della sua lettura contenga abbastanza oggettività da farmi vedere un autore o un libro non come un prodotto della sua immaginazione culturale e dei suoi desideri, ma come qualcosa che ha realmente incontrato e che anch'io posso incontrare.
Ho annotato queste considerazioni così poco originali leggendo nel Diario di una scrittrice di Virginia Woolf (appena uscito da Minimum fax) le impressioni e le reazioni provocate in lei dall'Ulisse di Joyce: «Mercoledì, 6 settembre (1922). Ho terminato l'Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso ovvio, ma nel senso letterario (") Mi ricorda di continuo un collegiale inesperto, pieno di spirito e di ingegno, ma così consapevole di sé, così egocentrico che perde la testa, diventa stravagante, manierato, chiassoso, smanioso, suscita pietà nelle persone benevole, e in quelle severe semplice noia». Non importa che la Woolf abbia ragione o torto. Ma rivela qualcosa di vero sia di Joyce che di se stessa.
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