Vi sono fenomeni che frequentano il sentiero unico di direzioni opposte in cui ci si può perdere o ritrovare indifferentemente. Il mito di Babele che interseca in un modo tutto suo la nostra storia è certamente uno di questi. Disordine fertile e contraddittorio che coltiva la divisione come un tesoro prezioso, condanna che apre a una salvezza inaspettata, l’identità, di cui la parola è avamposto ambiguo e affascinante. La diversificazione delle lingue che riassume in sé le dimensioni di ogni singola comunità, è risorsa e problema, in quali percentuali è impossibile da dire. È anche un impiccio non da poco comunicare con persone che provengono da ceppi linguistici del tutto eterogenei. Il nostro servo stupido e potente in costante divenire, l’intelligenza artificiale, procede a grandi passi verso il superamento di tutto questo. Babele rimarrà un ricordo nostalgico e naive, buono per i tradizionalisti di un pensiero morto e sepolto sotto la valanga inarrestabile degli innumerevoli speak and translate ormai disponibili ovunque.
Il povero Champollion un residuo di storie impolverate buone per il caminetto, per chi ne ha ancora uno autentico. D’altro canto le intelligenze artificiali sono scrittura così come tutto il mondo digitale. Un compendio delle scritture di ogni sorta, dotate di funzioni le più varie attraverso cui ogni aspetto del reale tradotto in digitale vive di una osmosi fluida e in definitiva incontrollabile.
La differenza degli idiomi è destinata a diventare il vezzo superfluo di un folklore poco smart che punteggia qua e là il dominio incontrastato della reversibilità totale, non solo delle lingue, ma di significati, materie, pensieri e etiche tutti disciolti in un oceano perenne di 1-0 (all’orizzonte potrebbe esserci qualche altro numero dicono i teorici).
Naturalmente tutto questo è il quadro allucinato di una visione in superficie. Babele è destinata a durare quanto l’umanità come il sangue e la carne senza cui non si dà esistenza, perlomeno la nostra. Il tema è comprendere su quale piano si trasferirà la diversificazione. Posto che tradurre è
riscrivere e che quindi non vi sarà mai una soluzione definitiva anche al semplice dire “pane” in lingue diverse, per approssimazione possiamo immaginare che il nostro servo stupido sarà in grado di ridurre prima o poi il delta di interpretazione verso lo scratch (zero).
Ma non intendo basare il mio ragionamento su questi sofismi troppo minimi per essere considerati dal pensiero medio. A quel punto dove si nasconderà Babele con le sue controverse mirabili risorse? Il dire non è solo descrivere, ma intendere, e l’intenzione è parte fondante del fare parola. La parola senza intenzione, quella della intelligenza artificiale, è come la didascalia adesiva sotto un quadro. Di quel quadro non dice nulla. È il non-altro appiccicato come un segnale stradale, una indicazione, verso dove poi? Io posso avere tradotti tutti i testi del mondo ma l’intenzione! È lì il covo inespugnabile del caos grazie al quale siamo ciò che siamo, lì è la Babele eterna di diversità, conflitto e scontro che danno senso al dialogo, incomprensioni che generano
inquietudini su cui cresce il progettare umano come una edera ostinata.
Il “pane” che dico io, un indonesiano, un tedesco, forse anche il mio vicino, ha un lievito di medesima composizione chimica ma
stratificato sul sudore peculiare
delle sofferenze e delle gioie. Ogni “pane” ha il suo progetto. Le traduzioni di cui tutti ormai ci serviamo non spostano di un millimetro l’enigma della comprensione, grazie al quale il mondo è ciò che è e noi il mistero imperscrutabile di parole sempre uniche.
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