Nell'inesauribile discussione estiva sui rapporti che intercorrono oggi in Italia fra i troppi romanzi e i pochi critici, Angelo Guglielmi ha scritto una cosa interessante ("Corriere della sera" del 23 agosto). Secondo Guglielmi oggi il critico non scrive per esercitare un'influenza sul pubblico, scrive per orientare gli scrittori. La critica d'avanguardia, come quella di Guglielmi, ha sempre creduto nella funzione direttiva, strategica e didattica del critico: che esercita il suo ruolo individuando in ogni situazione la tendenza più produttiva, più giusta e augurabilmente vincente. Per fortuna Guglielmi è anche dotato di un istinto e di un fiuto che gli impediscono di essere un dottrinario. Sa prendere atto delle cose come sono, sa cambiare idea se la realtà lo impone. Perciò non potrei rimproverarlo di essere passato dalla predilezione per la "crisi delle forme" (negli anni sessanta) al più recente interesse per il rapporto fra romanzo e realtà.
Da parte mia, però, intendo diversamente il ruolo del critico. Quali che siano le sue preferenze e i suoi auspici, il critico farebbe bene a capire anzitutto quali sono i libri migliori, piuttosto che promuovere gli scrittori che fanno propria la sua idea di letteratura. Certo il critico può anche fare il consigliere degli autori, purché ci siano autori disposti a farsi consigliare da lui. Personalmente preferisco gli autori che mi sorprendono a quelli che realizzano i miei sogni, dei quali diffido un po' e la cui realizzazione, comunque, non vorrei delegare a nessuno.
Ma il punto è un altro. Ci si potrebbe chiedere se applicarsi intensivamente a fare critica recensendo innumerevoli romanzi italiani di oggi, sia un buon investimento per capire il presente. Qui ovviamente la decisione spetta ai singoli critici. A me pare che spiegare perché si scrivono troppi romanzi sia perfino più interessante che leggerli.
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