Era quasi Natale, e buio ancora, quando alle sette dal cellulare ha squillato un whatsapp. L'ho aperto infastidita: così presto, chi? «Don Fabio è morto», ho letto. Quel prete, per me un altro padre: e uno a cui finalmente potevo chiedere di Dio. Allora è stato come quando un grosso volume che leggi da mesi arriva all'ultima pagina, e lo chiudi: il tonfo della copertina sulle pagine lise. Esattamente così.
Trent'anni di vita, finiti. Ero per strada e guardavo i semafori, e il tram 19 che correva sul viale con il suo vecchio canto di metallo: tutto uguale, ma lui non c'era più. La morte, al primo urto, è un pugno che strozza la voce.
È venuto poi il giorno, grigio. Guardavo le foglie secche per strada: beate voi, mi dicevo, che vi portano via in un istante. Ma era per me che ero così triste - per me, che rimango. Allora ho pensato invece a questo sacerdote così caro, e di colpo sono stata lieta. Come avendo la certezza, d'improvviso, che lui, ora, era felice. Dopo tanta sofferenza, adesso nella luce.
In un'incolore mattina milanese, ero stranita. Con nessuno dei miei morti avevo avuto una simile sicurezza. Ora penso don Fabio che se ne va per le Dolomiti che amava, ad aprile, quando tra l'ultima neve spuntano i primi fiori. Lui è in Dio, ora. (Mi sbalordisce però, quanto ne sono certa).
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