«Donna, vita, libertà» hanno urlato migliaia di rappresentanti della comunità iraniana nel corso di quest’ultima settimana a Napoli, a Torino, a Roma. Un urlo che è diventato il grido di battaglia di una rivoluzione infermabile e destinata alla vittoria: è solo una questione di tempo. Questa rivoluzione urla, attraverso le voci dei coraggiosi manifestanti in Iran e quelle delle comunità iraniane in Italia e nel mondo, che vuole un Paese democratico, libero, moderno. Il regime teocratico di Teheran risponde reprimendo, imprigionando, condannando a morte, uccidendo. Tutte le forme più violente di repressione della storia (prima di inevitabilmente essere sconfitte) attaccano i giovani, il loro talento, la loro voglia di futuro. Nel caso specifico, come in Afghanistan, sotto attacco ci sono in particolare le donne.
Ai regimi non piace aver a che fare con la forza e la determinazione delle donne e con ragazze e ragazzi che vogliono costruire il proprio futuro e che devono poter avere il tempo e il talento per farlo. Invece la repressione picchia forte su di loro, sui ventenni, sui musicisti, sugli sportivi. Proprio due linguaggi universali, come la musica e lo sport, diventano nemici da combattere. Tuttavia lo sport, quando vuole usarla, ha una potenza inaudita. Può anticipare le sorti di una società, può correggere le storture di una tirannia. Può far sentire la sua voce in ogni angolo del pianeta.
Non è un caso che fra le voci dei tanti dissidenti ci siano tante sportive e tanti sportivi. Penso a Elnaz Rekabi, climber che a ottobre gareggiò ai Mondiali di arrampicata a Seul senza hijab, fermata al rientro in patria – fortunatamente non arrestata –, la cui casa di famiglia è stata distrutta da un incendio. Penso al calciatore Amir Nasr Azadani, condannato ieri l’altro a 26 anni di prigione. Penso alle confessioni estorte, e rese pubbliche dall’agenzia semi-governativa “Tasnim”, di quattro uomini e una donna, tutti sportivi: l’arrampicatore Hessam Mousavi, il ciclista Eshraq Najafabadi, l’istruttrice di snowboard Dana Shibani e i colleghi Amir Arslan Mahdavi e Mohammed Khiveh. Rischiano tutti la pena capitale. Penso a Faimeh Karimi, allenatrice di pallavolo e madre di tre figli piccoli, condannata a morte in attesa di esecuzione, o ancora, in una tragica escalation, penso a chi la vita già l’ha persa, per impiccagione, il 7 gennaio: Mohammad Hosseini, allenatore sportivo di settore giovanile e Mohammad Mehdi Karami, campione di karate.
Vengono colpiti sistematicamente giovani sportivi, donne e uomini, in quanto, in questo odioso regolamento di conti del potere, rappresentano simbolicamente il piegarsi della forza, del coraggio, della fisicità del popolo al proprio regime. Sono colpiti con più forza perché potenziali “modelli” per i giovani. Tutto ciò non è più sopportabile. E credo che sia doveroso che uomini e donne di sport nel mondo, insieme alle istituzioni sportive, al Comitato Olimpico Internazionale e a quelli nazionali, alle federazioni mondiali e nazionali di tutte le discipline, prendano posizione, inizino una serrata opera di moral suasion nei confronti delle corrispondenti istituzioni sportive iraniane e del governo di quel Paese. Nessuno può più, in nessun modo, dire di non sapere: dunque chi sceglie di tacere non solo non aiuta ma diventa, a tutti gli effetti, complice.
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