Ieri (25/5) i giornali erano ingombri di immane tristezza. Lamiere accartocciate, alberi tranciati, domande senza risposta, ipotesi e sospetti. La tragedia è sempre vigliacca, ma ancor di più se colpisce chi si riaffaccia alla vita. «Finalmente una gita» (Gian Antonio Stella, “Corriere”); «Perdere la vita nel giorno del ritorno alla vita» (Maurizio Crosetti, “Repubblica”). Prosegue Crosetti: «Le disgrazie non si classificano, ma questa è più atroce perché precipita, insieme a quella cabina, dentro il vuoto dal quale stiamo uscendo tutti. Questa è una tragedia inconcepibile perché dopo il morbo, la paura, la reclusione, la separazione dal mondo, immaginavamo che quel mondo non volesse altro che riaverci con lui». Gli fa eco Stella: «Erano otto mesi che le persone aspettavano finalmente di uscire dall'incubo della pandemia (...). E quello doveva essere lo spirito con cui le famiglie annientate dalla tragedia avevano raggiunto Stresa, per salire con la funivia in cima al Mottarone».
C'è chi si pone domande eterne, come Lucetta Scaraffia: «Qual è il senso del dolore innocente?» e Davide Rondoni: «Precipita sui nostri cuori ancora un grande “perché?”», entrambi sul “Quotidiano Nazionale”. E chi evoca il fantasma del ponte Morandi e di altre tragedie simili. Vittorio Macioce scrive sul “Giornale”: «Quello di cui si può parlare adesso è un'inquietudine che si ripete. È la stessa di quando è crollato il ponte Morandi. C'è qualcosa in questa terra che si è perso. È la cura. È lo scrupolo (...). Troppo spesso si lavora male. Il lavoro è irresponsabile e non ti salva la vita». Stessi argomenti, ma toni – se possibile – ancora più aspri, in Gabriele Cané (“Quotidiano Nazionale”): «Non c'è di mezzo il destino. Qualcosa non ha funzionato. Qualcuno non ha vigilato. Qualche lavoro di manutenzione non è stato fatto, o è stato fatto male. Come al ponte Morandi. Come al ponte crollato sul Magra (...). È l'Italia dell'incuria». La voglia di verità e la rabbia sorda urlano e si mescolano, indistricabili.
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