Caro Gigi,
quando abbiamo avuto l'incidente d'auto in quel di Padova, siamo stati per qualche giorno nello stesso ospedale. Mi avevi fatto pervenire un biglietto scritto a mano, nella fonetica del “nostro” kulango della Costa d'Avorio, chiedendo scusa per l'accaduto. Quel camion che ha tagliato la strada all'auto, l'asfalto bagnato e la macchina schizzata nell'altra corsia, dove sopraggiungeva un furgone e lo scontro quasi frontale. Eri stato salvato per un gioco del destino, perché guidavi tu e mi stavi accompagnando alla stazione ferroviaria, con la consueta disponibilità. Chissà perché mi è tornato in mente questo particolare, a pochi passi dal secondo anniversario del tuo sequestro a opera di sconosciuti, nella notte del 17 settembre 2018. Quel miracolo chirurgico che ha ricostruito le parti lese del tuo corpo, i ferri nelle ossa e la forzata immobilità forse ti hanno stranamente preparato all'attuale prigionia. Ora i ferri sono altri e somigliano a chiodi infitti nei polsi e nei piedi, il costato già era ferito dagli anni passati assieme nella stessa missione a Bondoukou. Quel giorno mi avevi prestato la macchina, una Fiat Panda, che con malcelata fierezza mantenevi pulita e funzionante. Al ritorno dalla comunità dove in seguito saresti stato tu il responsabile, ebbi un incidente che ti sottrasse l'auto per sempre. Alla vista della rovina dell'auto a cui tenevi tanto, il tuo unico commento fu nei confronti della mia salute con un “se mi ero fatto male”...
Padre Maccalli - Fotogramma
Chissà perché mi viene in mente un altro particolare, di quando ti sono venuto a cercare all'aeroporto, in un atipico sabato pomeriggio d'inizio settembre. Tornavano in contemporanea centinaia di pellegrini dalla Mecca ed è a loro che si dava la priorità al momento di uscire dall'aeroporto Diori Hamani di Niamey. Nell'attesa del tuo aereo ripensavo che al mio primo arrivo nel Paese, nel mese di aprile del 2011, c'eri tu ad accogliermi e ad accompagnarmi nella casa dove abito ancora oggi. La tua camera, i confratelli sorridendo ti prendevano a volte in giro, era la numero due. Lì lasciavi le tue cose nell'armadio metallico per le visite quindicinali, destinate all'acquisto di quanto necessario per vivere con dignità a Bomoanga, a oltre 130 chilometri da Niamey, in zona semidesertica. Portavi sempre notizie dal profondo, dei poveri contadini e delle piccole e fragili speranze che cercaci di condividere attraverso progetti di attento umanesimo integrale. Avevi dormito in quella camera per l'ultima sera prima di partire per la tua zona e, assieme ad alcuni amici, avevamo cenato nel ristorante italiano di Niamey, il noto “Pilier”.
L'ambasciatore ci aveva offerto quella che, commentando con con lui ed altri, sarebbe stata “l'ultima nostra cena con padre Maccalli” prima del dramma.
In quella mensa c'erano tutti. I poveri, i bambini dei quali ti occupavi, la piccola deceduta al “Bambin Gesù” di Roma in un disperato tentativo di salvarla, gli animatori, le famiglie, i giovani che aiutavi, assieme ad altri, per continuare gli studi o la formazione professionale. Forse c'era tra loro anche un Giuda. C'è sempre da qualche parte qualcuno che tradisce gli amici, che avrebbe informato, coscientemente o meno, i rapitori sul tuo ritorno e le tue abitudini serali. Era notte e coloro che ti avrebbero poi rapito sapevano che non fermavi subito la porta della camera. Veniva gente per cercare medicine per le urgenze che, in un villaggio sperduto e senza servizi sociali, non mancano mai.
Sapevano che c'era una luce e una porta che si apriva con il sorriso di una speranza a portata di mano. Era notte a Bomoanga, posto che neppure si trova nelle mappe più sofisticate di Google, ultimo o quasi dei piccoli borghi senza altro futuro che persone come te e come coloro che danno vita alla comunità cristiana cercano di offrire: una scuola media, un possibile convitto e soprattutto la necessità di offrire ragioni di rimanere sul posto, con dignità. Era notte quando ti hanno portato via e da allora sono passati due anni di tenebre solo interrotte da un breve messaggio video il 24 marzo scorso, primo e, per ora, unico segno di vita. Ci sono state testimonianze, racconti, ipotesi, ricerche e forse trattative, sappiamo poco di tutto questo.
Caro Gigi, caro padre e fratello, sai bene che continuo a mandare le mie lettere settimanali al tuo indirizzo mail e che in camera ti aspettano alcune camicie che ti sono state regalate per la festa della comunità. Sull'altare dove anche tu celebravi c'è da allora la tela di stoffa che avevi creato per l'inaugurazione della Basilica dei poveri. La tua macchina si trova al solito posto, pronta per continuare il viaggio.
Niamey, 13 settembre 2020