Padre Luciano Meli, frate francescano, sul suo blog ( tinyurl.com/hrp7fwk ) ha rilanciato il bell'elogio del “buonismo” pubblicato alcuni giorni fa da “Il Post” a firma dello scrittore Giacomo Papi ( tinyurl.com/jobjo68 ), che a sua volta interveniva nel dibattito sollevato sulla diffusione, con connotazione negativa, di quel termine nel contesto politico-sociale. All'origine della riflessione c'erano le reazioni, polarizzate tra consenso e rifiuto, che l'opinione pubblica ha espresso quando due donne rom sono state rinchiuse nella “gabbia” della merce fallata di un supermercato dove stavano rovistando e filmate con un telefonino mentre gridavano aiuto.
Poiché anche nelle dispute tra cristiani il temine “buonismo” è oggi ampiamente presente, mi chiedo se sia praticabile la paradossale conclusione del post, pur suggestiva: «Se nessuno vuole più concedere la parola buoni a chi si sforza di esserlo, vada per buonisti, che in fondo è lo stesso». Interrogando i miei robot, trovo che utilizza “buonismo” nel senso corrente lo stesso papa Francesco, evidentemente consapevole che l'area antimoderna si serve anche dell'accusa di “buonista” per screditare lui e quant'altri, nella Chiesa, sarebbero i propagandisti di una misericordia senza la giustizia. Eccolo allora contrapporre al “buonismo” ciò che la misericordia può e deve essere, ad esempio al termine del Sinodo dei vescovi del 2014, quando lo descrive come «misericordia ingannatrice» che «fascia le ferite senza prima curarle e medicarle»; o nel Messaggio per la Gmg di Cracovia 2016, dove conclude così l'esortazione a praticare le opere di misericordia: «Non è “buonismo”, né mero sentimentalismo. Qui c'è la verifica (…) della nostra credibilità in quanto cristiani nel mondo di oggi».
Arrivo così a scoprire l'acqua calda: l'essere buoni fa parte di ciò che dovrebbe far riconoscere un cristiano rispetto agli altri uomini, e l'infinitamente buono, per il cristiano, è il Signore: chi oserebbe degradarlo a buonista?
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