Ci sono personaggi di alto livello professionale e culturale e di pubblica stima che – peccato! – talvolta inciampano sui luoghi comuni. È il caso di Sergio Romano, che sul Corriere della sera (giovedì 19) ripete il ritornello dell'«intervento della Chiesa romana nelle vicende politiche del Paese». «Ci sono – scrive – uomini politici […] che non esitano a invocarlo per giovare a se stessi o per compiacere la Chiesa quando questa prende posizione su alcune delle questioni bioetiche che chiedono di essere regolate da una legge». È questo «un atteggiamento fatto di calcolo, cinismo, opportunismo e persino superstizione religiosa». Siamo alle solite: parrebbe che in Italia la libertà di parola sia riservata ai cosiddetti "laici" e che il Paese non abbia autonomia nel legiferare, per esempio, su divorzio, aborto, fecondazione artificiale, omofobia eccetera. Chi, da cristiano, si preoccupa del bene comune sarebbe, dunque, soltanto un calcolatore cinico, opportunista e affetto da «superstizione religiosa». A riprova di ciò Romano cita lo scandalo, registrato da un commissario di polizia del rione Borgo (quello accanto a San Pietro) quando, dopo la morte di Pio IX (1878), «magistrati, senatori, deputati, generali del Regno d'Italia chiedevano di godere lo stesso privilegio» dell'«aristocrazia nera» (cioè vaticana) di partecipare ai funerali del Papa entrando in basilica da una porta secondaria: tutti calcolatori, cinici, opportunisti e superstiziosi? «Questa – conclude – è l'Italia», che il Corriere illustra con una vignetta dove lo "stivale" è sovrastato da un cappello da prete, il vecchio "saturno" che nessun chierico porta più. Sono convinto che le vere superstizioni siano i soliti vecchi luoghi comuni di tanti membri di certa aristocrazia intellettuale laicista, cui bisognerebbe offrire un corso elementare di aggiornamento. SPERANZA SÌ E NOTre titoli di Repubblica parlano della «fine del mondo» (sabato 14), della «Terra che finisce» (lunedì 16) e persino della «fine del peccato», ma nel senso del «nuovo umanesimo laico» (sabato 7). Poco convinta pare replicare La Stampa: «Siamo programmati per esistere e non per morire» (mercoledì 18). Per fortuna l'Unità (lunedì 16) dà spazio al «regista civile» Pasquale Scimeca: «Io, figlio del mio tempo ateo e materialista, penso che sia arrivato il momento di tornare a credere in quel Gesù, che ha amato così tanto gli uomini…». Titolo: «Fede: tornare a credere per salvare la speranza».IL GIURISTA OFFESOA differenza di Antigone, la protagonista della omonima tragedia di Sofocle (400 a. C.), che seppellisce il corpo del fratello sfidando il divieto del re di Tebe e la pena di morte, il personale sanitario che si rifiuta, in base alla legge, di praticare aborti fa «un uso offensivo» dell'obiezione di coscienza, perché «lede il diritto delle donne che chiedono l'Ivg, senza pagare alcun prezzo». Noi Donne, mensile femminista, riporta così (nel numero di settembre) un'argomentazione di Stefano Rodotà, giurista di fama, per il quale la donna avrebbe l'inesistente diritto di eliminare suo figlio mentre il medico non dovrebbe avere il diritto di rifiutarsi a questa esecuzione «senza pagare un prezzo»: rifiuto che così rende «offensivo» l'uso dell'obiezione. Due millenni e mezzo di civilizzazione del diritto trascorsi invano.
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