Ci è capitato in altre circostanze di sottolineare come la televisione sguazzi spesso nel crimine, soprattutto con i talk show mattutini e pomeridiani, ma ormai anche con i telegiornali e gli altri programmi d’approfondimento giornalistico. A volte ci possono essere dei validi motivi, altre volte c’è la fascinazione per le storie di sangue indotta appunto da questa tv del dramma. La cronaca nera non va taciuta, ma nemmeno enfatizzata o addirittura spettacolarizzata. C’era pertanto il rischio che martedì scorso la sentenza del processo per l’uccisione di Giulia Cecchettin offrisse l’occasione per tornare con insistenza (e così è stato) su uno dei casi di femminicidio che la tv, e di conseguenza l’opinione pubblica, ha seguito con maggiore attenzione. E ci è difficile dire se sia stato giusto o meno. Di sicuro c’è il dubbio che la notizia della condanna all’ergastolo di Filippo Turetta, letta poco dopo le 16 dal giudice Stefano Manduzio, meritasse l’apertura dei telegiornali della sera mentre nel mondo succede di tutto. Certo un approfondimento lo valeva anche solo per il fatto che la Corte d’assise di Venezia, dopo sei ore di camera di consiglio, ha dichiarato Turetta responsabile di omicidio premeditato, ma non ha riconosciuto l’aggravante della crudeltà e l’ha assolto dal reato di atti persecutori nei confronti della ragazza. Tra chi ha approfondito la questione, da segnalare, martedì in prima serata su Rai 3, lo Speciale Un giorno in pretura, condotto dall’ottantenne Roberta Petrelluzzi che, come Franca Leosini (che di anni ne ha novanta), ha dedicato la vita professionale ai processi e ai casi di cronaca in tv. Nel caso specifico, con la collaborazione di Francesco Giulioli e Simona Tili, ha ricostruito la tragica vicenda e le personalità dei due ragazzi veneti attingendo al materiale delle indagini e alle varie fasi processuali. Ne è venuto fuori un documento senz’altro importante, che non ha risparmiato però i momenti più drammatici della testimonianza di Turetta in aula con le telecamere che hanno indugiato molto sul reo confesso, confuso e a testa bassa e al momento della sentenza lo hanno ripreso in primo piano con sullo sfondo il padre di Giulia, Gino Cecchettin. E anche su questo ci si può interrogare se sia giusto o meno e soprattutto se il telespettatore sia preparato a certe immagini. E lo diciamo senza mettere in dubbio la professionalità della Petrelluzzi, che ha sì parteggiato per la pena più severa, quella che riconoscesse anche la crudeltà e lo stalking, ma che poi ha chiuso facendo riferimento all’eredità molto forte lasciata da Giulia: «Un dono straordinario, farci incontrare la sua famiglia e suo padre, uomo capace di non nutrire sentimenti di odio e di vendetta, che ha deciso di convogliare tutte le sue energie per lavorare sull’origine della violenza di genere attraverso la Fondazione Giulia Cecchettin».
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