Cresciuto in una famiglia un po' superstiziosa, ho letto con interesse le parole sulle superstizioni scritte da Lucia Graziano nell'ultimo post sul suo blog “Una penna spuntata” ( bit.ly/3i2BJbr ), in premessa a una delle consuete incursioni storico-religioso-gastronomiche. Questa volta si parla della credenza, diffusa dalle Isole Britanniche agli Stati Uniti, che non si debbano mangiare more dopo il 29 settembre, festa di san Michele arcangelo e ultima data utile per cucinare la relativa torta. Secondo l'autrice, che si basa sul ponderoso saggio di K. Thomas “Religion and the Decline of Magic” (1971), «quasi tutte le superstizioni svolgono, a loro modo, una funzione sociale». Come la sventura conseguente al rompere uno specchio (o a rovesciare il sale o l'olio, aggiungo io), certo legata al costo che il bene andato perduto rappresentava in epoche meno consumistiche di quella attuale. Non meno plausibile è il fine sociale che sta dietro all'idea che le donne incinte «non devono fare» alcune cose: «Un modo per far capire che le poverine gradirebbero molto potersi riposare, delegando certe incombenze ad altri membri della famiglia». Per la superstizione su san Michele e le more, che dall'inizio dell'autunno non sono più, effettivamente, buone da mangiare, appare forte il sostrato religioso (come per tante altre: basti pensare al rapporto tra i giorni della passione e la fama negativa che accompagna il venerdì o l'essere a tavola in 13), così che nel raccontarla Lucia Graziano va letteralmente a nozze. Essa risalirebbe infatti alla caduta di Lucifero su un rovo di more dopo la sconfitta nell'epica battaglia tra gli angeli sediziosi e le milizie celesti capitanate, appunto, dall'arcangelo Michele. Battaglia il cui racconto, che “Una penna spuntata” riprende alla lettera da un'omelia dell'Ottocento, rappresenta in questo post una perla a sé: veramente degno della migliore narrazione fantasy.
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