Gli Australian Open, il primo dei quattro tornei annuali del Grande Slam di tennis che si disputa, di solito, nella terza e quarta settimana di gennaio dalla parte a noi opposta del pianeta, si candida a diventare un caso da studiare per lo sport ai tempi del Covid. Il torneo, a causa dell'emergenza pandemica, è slittato di un paio di settimane e si disputerà dall'8 al 21 febbraio, ma ciò che succederà in Australia non sarà soltanto un tentativo di ripartenza dello sport, in un 2021 che si spera denso di avvenimenti, basti pensare agli Europei di calcio e ai Giochi Olimpici, ma sarà anche uno spaccato di realtà di un mondo che, anch'esso, morde il freno per ripartire.
Non entrerò nei dettagli della complicata organizzazione, riporto soltanto un fatto che mi pare particolarmente interessante: è stata decisa la creazione di due bolle separate che accoglieranno gli atleti che partecipano al torneo. La prima, di extra-lusso ad Adelaide, accoglierà i sei tennisti vip che sono in cima al ranking mondiale: Novak Djokovic, Rafa Nadal, Dominic Thiem, Simona Halep, Naomi Osaka e Serena Williams mentre la seconda, diciamo così, normale sarà a Melbourne dove verranno accolti tutti gli altri giocatori. Le condizioni decisamente migliori di ospitalità e una quarantena che si presume soft per i top-players residenti ad Adelaide hanno generato, come prevedibile, malumori ben sintetizzati da Jeremy Chardy, numero 75 del ranking Atp, che ha posto pubblicamente una domanda piuttosto provocatoria: «Cosa sarebbe successo se Federer fosse venuto in Australia? Non è nei primi tre, ma non penso che gli organizzatori se la sarebbero sentita di lasciarlo a Melbourne con noi».
Nella sua retorica semplicità la domanda di Chardy è un po' la stessa domanda che, da ormai undici mesi, circola nelle teste di milioni di persone: come si farà a garantire pari opportunità, pari risorse, pari condizioni in un mondo che ha subito una mostruosa accelerazione come quella imposta dalla pandemia? Come si potrà, non solo nello sport, tentare di far sì che tutti competano con le stesse chance e possano essere in grado di esprimere il proprio potenziale? È evidente che questa riflessione non vale soltanto per i tennisti, ma anche per ristoratori, operatori del turismo e del settore culturale, imprese, liberi professionisti e per la scuola. Già, anche per la scuola: perché c'è solo una cosa peggiore della ormai infinita distanza fisica imposta agli studenti nelle loro relazioni di classe e ai docenti nei confronti dei loro discenti ed è la diversissima e per nulla democratica possibilità di accesso alla didattica a distanza. Perché se in condizioni eccezionali e di emergenza anche la didattica a distanza può avere un senso, quel senso si smarrisce impietosamente di fronte a coloro che, figli di una... bolla minore, sono alle prese con connessioni che non vanno o alla ricerca di dispositivi di cui non sono in possesso.
Sarà allora questa la vera grande eredità e la sfida che ci lascerà la pandemia? Una forbice enormemente allargata fra chi avrà accesso privilegiato a delle risorse e chi no? E quali saranno i criteri che determineranno questo accesso? Il ranking (fuor di metafora) che ci si era guadagnati prima della pandemia? Dunque i più talentuosi, i più bravi, i più forti avranno condizioni ancora migliori e gli ultimi, i più fragili, i più svantaggiati ancora meno? Certo, siamo partiti da un esempio estremo di eccellenza e privilegio, uno dei tornei di tennis più prestigiosi al mondo, accorgendosi che perfino lì l'esito di questa situazione sembra essere quello di creare considerevoli differenze. Cosa ne sarà del resto del mondo?
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