Lui ha un anno e quando deve dormire, ma non vuole, lo tengo in braccio, lo cullo finché non si arrende e le palpebre gli calano. Lo dondolo, seduto sulle mie ginocchia, e mi stupisce come un attimo prima di chiudere gli occhi Martino mi prende le mani con le sue manine. Quasi che il sonno fosse un mare scuro, in cui ha un po' paura a tuffarsi. E solo nell'afferrare le mie mani finalmente si abbandona.
Osservo le sue dita così piccole intrecciate con le mie, in una fiducia totale. Profonda tenerezza, e anche un moto quasi di invidia: potessi io, quando sono stanca o ho paura, afferrare le mani di qualcuno, mani forti e buone di cui fidarmi. In quel fidarsi ogni dolore e fatica sarebbero meno gravosi - perché non sarei sola.
Ma da tanto non sono più bambina, e non ho mani cui aggrapparmi. Eppure, nel profondo, bambina, figlia mi sento sempre, dolorosamente. Figlia di un padre di cui sono certa, e che pure non posso vedere né toccare. E quanto avrei invece bisogno di toccarle quelle mani di padre, di sentire la durezza delle ossa, il palpito del sangue, e il calore. Che grazia sarebbero, quelle mani.
Ma, forse, nell'ultimo istante? Come bambini tuffarsi in un mare vertiginoso e oscuro, ben più profondo del sonno: ma avvinti a mani buone.
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