Ci sono lacrime individuali. E lacrime di popoli interi. Lacrime tanto copiose che, messe in fila, formano una lunga pista fatta di dolore e di morte. Come la Pista delle Lacrime, il Trail of Tears, una pagina oscura della storia americana vecchia di quasi due secoli.
Né parolaccia né parolina ma parola tragica, la Pista delle Lacrime. Il delitto si compie nel 1838, ma l'idea che ne è all'origine è molto più vecchia. Il primo a proporre la deportazione a ovest delle nazioni indiane era stato un padre della patria, Thomas Jefferson. C'era terra abbastanza, a est? Sufficiente per i coloni affamati di terra e di risorse ma anche per i nativi? Certamente. Ma l'ingordigia dei più forti e la loro paura per chi appare anche minimamente diverso determinano orrori. Si rimprovera ai diversi di non volersi uniformare, adattare, integrare. Ma le cinque tribù civilizzate – Cherokee, Chikasaw, Choctaw, Creek e Seminole – avevano assunto lingua e usanze dei bianchi. I Cherokee, in particolare, avevano fatto tesoro dell'alfabeto "inventato" dal capo Sequoya e nella loro capitale, New Echota, avevano fondato perfino un giornale bilingue, oltre a scuole, aziende agricole, piccole industrie. Nel 1828 il loro capo diventa John Ross, scozzese per sette ottavi. Colto e benestante, conosce benissimo le leggi e sa destreggiarsi a Washington. E quando nel 1830 viene promulgato l'Indian Removal Act, si oppone.
Altre nazioni indiane del sudest, non solo quelle "civilizzate", invece accettano di trasferirsi oltre il Mississippi, in Oklahoma. È una truffa. Le terre assegnate sono meno estese e più povere di quelle sottratte loro in Georgia e Alabama. E sono già abitate da "vicini" che non li vogliono. Ma soprattutto il trasferimento sembra organizzato con modalità studiate apposta per decimarli. I primi a partire sono i Choctaw nel 1831. Gli ultimi saranno i Cherokee di Ross.
È una storia complicata. Ross si rivolge alla Procura federale e fa causa allo Stato della Georgia. Vince. Ma la Georgia semplicemente se ne frega. Un giorno Ross, rientrando da Washington, trova la sua casa occupata da un bianco. Tutto legale, certificato dai documenti di esproprio. Gli indiani devono andarsene. I Cherokee si dividono in due fazioni e due partiti. Ross resiste. Allora la Georgia firma un accordo con la minoranza. Il trattato viene dichiarato valido. È il 1838 e i Cherokee devono andarsene. Il trasferimento è organizzato, si fa per dire, in autunno e inverno. I carri non sono sufficienti, mancano le coperte, le vettovaglie sono scarse. Durante il viaggio, i profughi sono assaliti dai banditi e derubati di tutto. La stessa moglie di Ross muore di polmonite. È una strage. I cadaveri giacciono lungo la pista, non c'è tempo per fermarsi. Un calcolo approssimativo parla di oltre quattromila morti senza sepoltura. Nel complesso, il 25 per cento di chi, tra il 1831 e il 1838, affronta la Pista delle Lacrime non giunge a destinazione. Molti muoiono dopo, in seguito ai malanni.
Lacrime di profughi che non sono mai state tutte asciugate. Ma a chi importava allora la sorte nelle libere nazioni indiane, tutelate da trattati smaccatamente disattesi? Certo non ai bianchi che si videro assegnare case e proprietà dei nativi cacciati oltre il grande fiume. Quelle di John Ross sono le parole, scritte con le lacrime, dei profughi di ogni tempo: «Siamo privi della nostra nazione! Non siamo più membri della famiglia umana! Non abbiamo più un paese, un focolare, un luogo che possiamo chiamare nostro! Siamo soffocati!». La Pista delle Lacrime attende ancora un grande regista che sappia, e abbia il coraggio, di raccontarla.
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