Accordi verbali e orizzonti limitati. Paiono essere questi i profili commerciali delle imprese agricole italiane così come vengono delineati da un'indagine resa nota in questi giorni. Un'indicazione che chiarisce bene quanta strada le imprese agricole debbano ancora fare, per acquisire maggiori quote di mercato nell'ambito della filiera che dai campi porta gli alimenti fino al consumo finale.L'indagine è stata svolta dall'Ismea che spiega: «La vendita diretta è praticata dal 22% delle aziende agricole italiane, e tra queste la metà ricorrono in esclusiva a questa forma di commercializzazione». Ma non basta, perché «relativamente ai mercati di destinazione, complessivamente la quota di prodotto che le aziende destinano all'estero ammonta a 4% del totale, di cui il 3% verso i Paesi europei e l'1% verso i Paesi Extra-Ue». Anzi, nel 74% dei casi la destinazione geografica principale è limitata alla provincia di appartenenza dell'impresa.Ma forse è dal punto di vista contrattuale che la situazione si fa ancora più complessa e preoccupante. Il contratto scritto di durata uguale o inferiore all'anno, pare essere molto più diffuso di quello di durata superiore ai 12 mesi; e molti imprenditori praticano ancora gli accordi verbali. A vincere su tutto, poi, è la vendita alle industrie di trasformazione sulla base di un prezzo medio che viene poi rettificato a fine campagna e in base alla qualità. Ma una forte presenza hanno anche – e per fortuna –, le associazioni e le cooperative.L'analisi dei vari canali di sbocco effettuata dall'Ismea indica peraltro un'estrema eterogeneità da settore a settore. Gli allevamenti da carne vendono in prevalenza all'industria di prima trasformazione, per le aziende della zootecnia da latte è più rilevante la quota di produzione destinata agli organismi associativi (Cooperative, Associazioni, OP, Consorzi), come anche nel caso dei viticoltorie degli operatori specializzati in seminativi. Questi ultimi d'altra parte destinano una quota altrettanto significativa della produzione agli intermediari commerciali. Spiccano nella diversità gli olivicoltori, che riescono per il 44%a vendere direttamente al consumo.L'acquisizione da parte degli agricoltori di una maggiore porzione di valore aggiunto, deve così fare i conti anche con un'organizzazione commerciale che deve ancora essere molto affinata e resa efficiente, tentando anche di superare difficoltà storiche e difficili relazioni di filiera. Non è un problema di oggi, ma certamente oggi la sua risoluzione si fa più impellente e importante.
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