Nella vita che ricomincia, nelle strade di nuovo animate, restano sulle facciate dei palazzi delle finestre con le serrande chiuse. Locali sfitti? Forse. O gli inquilini saranno partiti? E per dove, se partire era vietato? Dietro quelle finestre, nella penombra, ci sono anche le case di chi non è tornato. Erano venuti a prenderli una mattina con un'ambulanza, i lettighieri con le tute, e il volto coperto. I rari passanti delle sette si fermavano a distanza, ammutoliti. E le conosco, le case dei nostri vecchi che se ne vanno. C'è sempre, in cucina, un calendario fermo su un giorno, ormai passato da tanto. Sul letto, abbandonato, un cardigan di lana, per il freddo della notte. In tinello si allineano nelle cornici d'argento foto degli anni Cinquanta, seppiate: due giovani sposi felici, in gita al mare.
E le immagini dei figli, e dei nipoti bambini: nel silenzio della casa tutti quei volti sorridono nel vuoto. Nei cassetti le ricevute del condominio e della pensione sono perfettamente ordinate. Accanto al telefono c'è un'agendina fitta di numeri, e le vecchie grosse guide telefoniche della città. Appeso al muro, in ingresso, un barometro, dei tempi in cui le previsioni meteo non ci dicevano con assillante precisione se il giorno dopo pioveva; e allora sullo strumento d'ottone, quasi sempre tedesco – d'alta precisione – si guardava se la pressione calava. Sul balcone due ciclamini morti, e un'edera che testarda sopravvive. Sul comodino un quotidiano di due mesi fa comincia a ingiallire. La sveglia elettronica funziona e, forse, suona ancora, ogni mattina alle sette. Ma poi la casa resta buia e immota. In portineria le bollette si accumulano, intonse. Quanti padri e nonni, portati via in tre mesi. Chiamati insieme, come coetanei a scuola, o alla leva. E hanno risposto, come allora, «presente»: e mitemente se ne sono andati.
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