«Siete solo degli illusi: trasformare il governo dei funzionari in uno strumento per il bene comune è un'utopia», avrebbe sentenziato probabilmente così l'economista francese Vincent de Gournay – che nel diciottesimo secolo coniò il termine burocrazia – se avesse partecipato oggi al dibattito in programma al Meeting di Rimini sull'evoluzione del lavoro pubblico da «casta a comunità professionale». Ma non è esattamente questa la visione che cercherò di portare, intervenendo in questo interessante confronto.Al contrario, sono convinto che i lavoratori pubblici stiano per affrontare più o meno consapevolmente una “curva della storia”. Stretti tra i rischi insiti nel nostro enorme debito pubblico, che continuerà a imporre anche nei prossimi anni severe cure dimagranti (a partire dal non-aumento delle loro retribuzioni) al bilancio dello Stato, delle Regioni e degli enti locali, e le sfide di produttività e di “merito” contenute nella riforma Madia, i lavoratori del pubblico impiego non potranno più giocare la storica carta dell'immobilismo professionale e psicologico. Non sarà certo una rivoluzione immediata, incompatibile con l'età media della categoria (che supera i 50 anni, la più alta d'Europa), né porterà lacrime e sangue, che non appartengono evidentemente alla cultura politica italiana. Ma il mix – messo in campo dal Governo Renzi – di misure di contrasto ai fenomeni più odiosi, come quello degli ormai celebri “furbetti del cartellino”, e di provvedimenti che introducono flessibilità e merito nella gestione e nella valutazione degli impiegati pubblici disegna una nuova era per gli oltre 3 milioni di operatori delle amministrazioni pubbliche. Che, appunto, saranno chiamati a essere (e a considerarsi) sempre meno “casta”, sempre più “comunità professionale”.È una strada obbligata, che l'Italia sta imboccando in ritardo e purtroppo senza il supporto di sindacati (non tutti...) realmente riformisti. Ma in un Paese che da 20 anni è sostanzialmente inchiodato in coda alle classifiche di crescita del mondo avanzato, non è più sostenibile (e neanche immaginabile) il «modello dell'anatra zoppa» fondato su un sistema produttivo a due velocità. La gamba che corre non è più in grado di mascherare quella che zoppica, né sul piano della competitività-Paese né su quello della giustizia sociale.In questa nuova era, dunque, il lavoro pubblico non potrà più essere la conquista del posto fisso, il grande sogno della Prima Repubblica per parafrasare Checco Zalone. Dovrà essere sempre più attività professionale “verificata” (nelle competenze, nell'impegno e nei risultati) per fornire alla comunità un servizio che i cittadini stessi siano in grado di giudicare. Non più soltanto potere di veto e di intermediazione, ma soprattutto responsabilità di decidere. Perché l'anatra possa tentare di spiccare il volo.@FFDelzio
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