sabato 29 giugno 2019
Se si guarda un mappamondo, il mar Mediterraneo quasi scompare nell'immensità delle acque che ricoprono il pianeta. Sembra poco più di un laghetto, quasi chiuso e collegato col resto degli oceani solo da uno strettissimo passaggio. Eppure in questo bacino è cominciato tutto, da queste coste hanno preso le mosse le culture che hanno plasmato la terra, qui è stata la culla e il centro di espansione delle tre grandi religioni monoteiste. Egiziani, ebrei, greci, fenici, romani, in questo mare si sono incrociate le grandi civiltà che hanno fatto la storia. Si sono combattute, ma anche contaminate a vicenda, determinando lo sviluppo di tutte le arti.
Si tratta di qualcosa che, chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la storia, sa molto bene. Purtroppo, però, viviamo in un tempo in cui l'ignoranza la fa da padrona, tutto ciò sembra dimenticato, e il Mediterraneo ha perso la sua naturale vocazione unitiva per diventare muro, frontiera, trincea. Tutto questo quando invece «siamo chiamati a dialogare – ha detto il Papa l'altro giorno a Napoli – con i musulmani per costruire il futuro delle nostre società e delle nostre città; siamo chiamati a considerarli partner per costruire una convivenza pacifica, anche quando si verificano episodi sconvolgenti ad opera di gruppi fanatici nemici del dialogo, come la tragedia della scorsa Pasqua nello Sri Lanka».
Sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI, in svariate occasioni, avevano avuto modo di porre in risalto questa “caratteristica imprescindibile” del Mediterraneo, specie da quando all'inizio di questo millennio, i tifosi dello scontro di civiltà hanno genericamente individuato nell'Islam – e non nel fanatismo politico camuffato con la distorta visione religiosa – il nemico da abbattere. Quello che invece è necessario, ci dice oggi Francesco, è tessere «una teologia dell'accoglienza e sviluppare un dialogo autentico e sincero con le istituzioni sociali e civili, con i centri universitari e di ricerca, con i leader religiosi e con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per la costruzione nella pace di una società inclusiva e fraterna e per la custodia del creato».
L'alternativa a questo indispensabile sforzo è quella cultura dell'odio continuamente alimentato agitando lo spettro della paura, una cultura che purtroppo conosciamo tutti bene. Al contrario, il modo di procedere «dialogico – ci dice Bergoglio – è la via per giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli. Dialogo e annuncio del Vangelo che possono avvenire nei modi tratteggiati da Francesco d'Assisi nella Regola non bollata, proprio all'indomani del suo viaggio nell'oriente mediterraneo».
Ma non basta. Perché ad essere importante è anche, forse soprattutto, il modo in cui ci avviciniamo agli altri che deve essere contrassegnato dalla docilità «ai segni e all'azione del Signore Risorto e al suo Spirito di pace, si annuncia la fede cristiana come manifestazione in Gesù dell'amore di Dio per tutti gli uomini. Questa docilità allo Spirito implica uno stile di vita e di annuncio senza spirito di conquista, senza volontà di proselitismo e senza un intento aggressivo di confutazione». È così che si instaura un vero dialogo con «gli uomini, con le loro culture, le loro storie, le loro differenti tradizioni religiose; una modalità che, coerentemente con il Vangelo, comprende anche la testimonianza fino al sacrificio della vita». È così che un muro diventerà un ponte, è così che si costruisce, con pazienza e perseveranza, la pace.
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