«Uomini della realtà in un clima irreale». Nel 1950 il mondo vedeva la nascita di un capolavoro del cinema, Miracolo a Milano, di Vittorio De Sica, che, ispirandosi a un racconto di Cesare Zavattini, realizzava una delle più belle fiabe dell'umanità, subito paragonata non a caso a quelle di Andersen, e comparabile per intensità d'amore e felicità narrativa, aggiungo, a quelle di Oscar Wilde. Non possiamo soffermarci qui sul film che racconta la storia di un giovane nella baraccopoli della periferia milanese; interpreti, accanto a pochi eccellenti professionisti, i cosiddetti "barboni", la cui vita diseredata viene rovesciata da un miracolo d'amore. De Sica, con suoi attori poveri e emarginati davvero, più un paio di fuoriclasse (Emma Grammatica e Paolo Stoppa), creava, in un film di denuncia privo di ogni ideologismo o demagogia, una fiaba in cui gli uomini sono "esseri della realtà", ma trasmutati, dalla magia dell'arte, in un clima "irreale": onirico, fiabesco, celestiale. Gli artisti, soprattutto i registi cinematografici, dovrebbero imprimersi come un motto e ripetere come un mantra la frase con cui il grande De Sica definiva il suo film, rivelando in realtà una visione che riguarda ogni opera d'arte che affronti i temi dell'uomo in forma corale: «uomini della realtà in un clima irreale».
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