martedì 28 aprile 2020
Non mi sono mai piaciute le tessere. Le vedevo come un segno di intruppamento e adesione cieca a un gruppo o partito che fatalmente avrebbe tradito ciò per cui era nato. Non ho mai aderito a un partito per la stessa ragione e perché gli esempi che vedevo attorno erano deludenti. Ho preferito il sindacato perché, almeno nel mio caso, partiva e ritornava a condizioni di vita reali, a lotte di emancipazione e a bagliori di trasformazione. Gli anni della FLM, la Federazione Lavoratori Metalmeccanici, e poi la corta stagione di possibili cambiamenti nei rapporti di potere nelle fabbriche. È passato anche quel tempo, come tutti sappiamo, e soprattutto il lavoro "solido", come si interpretava allora. Le mie reiterate partenze per il mondo come "passeur" di un'altra realtà possibile, senza armi, le mani aperte e nude, mi hanno fatto perdere le tracce di cosa il lavoro sia diventato in Italia. Lo vedo lontano, fatto a pezzi, precario, fragile, transitorio, tradito e avvilito. Ditte e subappalti, sfruttamenti ancora più impuniti di una volta e il sentimento che qualcosa sia andato irrimediabilmente perduto. Le solidarietà sui luoghi di lavoro, lo sciopero del "rendimento" condotto per anni, financo l'occupazione della fabbrica e poi l'assalto del capitale e la susseguente "capitolazione" al capitale. Anche i sindacati hanno gradualmente perso la credibilità di una volta e molti dei sindacalisti sono diventati solo funzionari. Questo vedevo ogni volta più accentuato nei miei sporadici e affrettati ritorni in patria dal Grande Sud del Mondo, dove il lavoro è informale quando c'è, si vive al giorno senza troppo guardare il calendario. E pure da questa parte del mondo non mancano né sfruttamenti né tentativi di resistenza ai colonialismi economici che si avvalgono di complici del posto.
Ho una sola tessera che porto con me. Quella dell'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani d'Italia che a ogni rinnovo mia nipote mi mette da parte o mi manda con mezzi di fortuna. È passato il tempo e la tessera che ho sotto gli occhi, quella del 2020, ricorda che ormai sono 75 anni dalla liberazione e scritto grande in rosso c'è il numero 25 e, in nero, No al fascismo! Porto la tessera perché per primo l'aveva mio padre, partigiano sull'Appenninio ligure-parmigiano con la Vecchia Centocroci del comandante "Richetto". Lui, e l'abbiamo saputo tardi, aveva rifiutato di ricevere lo Sten, mitra a canna corta progettato in Gran Bretagna, e aveva scelto di guidare i muli sui tortuosi sentieri delle montagne. Portava solo quella tessera, assieme a quella della Filca-Cisl, dopo aver trovato lavoro in una fornace per la fabbricazione dei mattoni a Sestri Levante. Lui passava di cantiere in cantiere, dopo il lavoro che gli cuoceva le dita che in quel momento proteggeva con pezzi di camera d'aria tagliata. Raccontava che a volte dovevano buttare secchi d'acqua sui lavoratori, svenuti accanto al forno, per svegliarli e perché continuassero il lavoro fino alla fine.
A Niamey ci troviamo a migliaia di chilometri dalla tessera dell'Anpi e poi quest'anno non si è festeggiato il 25 aprile all'Ambasciata d'Italia, causa il divieto di assembramenti dovuto alla fin troppo nota epidemia. Qui invece, il 24, si è celebrata la "Concordia", festa nazionale del Niger che ricorda l'accordo di pace, siglato nel 1995, tra il governo e una ribellione armata tuareg. È l'appello, molto attuale in tempi di instabilità legata ai gruppi jihadisti nel Sahel, a un comune destino e altri cammini, con mezzi non violenti, per i cambiamenti necessari alla dignità. Invece dei mitici fazzoletti partigiani qui e là si indossano mascherine che nascondono i volti e trasformano l'altro in potenziale "untore". La democrazia è stata confinata dietro misure di sicurezza che appaiono come altrettante sbarre che tengono lontano il nuovo nemico del popolo. Rimane la stoltezza di una tessera come eredità da trasmettere alle generazioni che ancora non sanno il valore, senza prezzo, della libertà.
Niamey, 25 aprile 2020
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