Nella crisi che da tempo investe l'informazione e il suo rapporto col digitale ci sono due certezze. La prima è che il settore è in crisi in tutto il mondo. La seconda è che (quasi) ogni professionista del settore ha una sua ricetta in merito.
Alcuni la desumono dalla propria esperienza. Altri si basano ciecamente sui numeri, visto che nel digitale tutto è tracciato. Altri ancora citano la ricetta di Le Monde: «più giornalisti e meno notizie uguale più lettori» (perché per fare giornalismo di qualità occorrono professionisti e tempo); oppure citano quella di Mark Thompson, guida del New York Times: non dimenticare il giornale cartaceo sapendo però che per sopravvivere occorre puntare sul digitale e che bisogna vendere in qualunque modo giornalismo di qualità, fatto con ogni mezzo (carta, web, video, podcast, incontri, conferenze).
Con 1.750 giornalisti (trecento in più di qualche anno fa) e 5 milioni di abbonati solo all'edizione digitale, visto dall'Italia il New York Times sembra un mondo a sé. Un'isola felice. C'è un punto però nella strategia di Thompson che può esser applicato a qualunque media italiano. Anche ai più piccoli. Per migliorare occorre avere il coraggio di farsi le domande più scomode sul proprio ruolo oggi.
Facile da dire. Molto più difficile da fare. Per esempio, che cosa rispondereste se a ogni articolo che state per scrivere per il vostro blog, il vostro sito, il vostro bollettino, il vostro settimanale eccetera vi chiedessero: perché una persona dovrebbe spendere del tempo per leggerti? E per guardare il tuo video? E per ascoltare il tuo programma radio o il tuo podcast?
Intendiamoci, nessuno sa esattamente come salvare l'editoria al tempo del digitale (io per primo). Ma alcune cose sono ormai molto chiare. Innanzitutto, che ognuno di noi ha sempre meno tempo. E sempre più «cose» a disposizione. Quindi, per conquistare la nostra attenzione, i giornalisti e gli editori devono e dovranno impegnarsi sempre di più. Detto con uno slogan: fare meno per fare meglio. Tanto più che, stando agli ultimi dati comScore/Sensemakers, per leggere notizie occupiamo solo tra l'1% (fascia 18-24 anni) e il 4% (over 35) del nostro tempo online. Poco. Pochissimo.
La seconda certezza è che i lettori vogliono essere sempre più coinvolti. Cercano una relazione vera con i media. La terza: nel digitale i clic hanno (e avranno) sempre meno valore. Per questo l'Engaged Journalism Accelerator, un servizio di promozione del giornalismo gestito dall'European Journalism Centre, ha rilanciato Remp, un sistema «aperto» (e gratuito) che aiuta chi fa informazione a convertire i contenuti giornalistici in abbonamenti, perché «ogni abbonato vale più di 48mila clic su un articolo».
Non è finita. Ciò che conta e conterà sempre di più nel giornalismo digitale non è quanti hanno cliccato su un articolo (magari per poi chiuderlo dopo pochi secondi) ma per quanto tempo l'hanno letto. Non a caso, pochi giorni fa, ha debuttato in America un progetto che potrebbe dare una spinta significativa a molti giornali. Si chiama Scroll e offre per 4,99 dollari al mese (2,49 per i primi sei mesi) la possibilità di leggere articoli su oltre 300 siti di notizie, senza essere disturbati dalla pubblicità (ormai sempre più invadente). Il 70% di ogni abbonamento a Scroll va ai singoli editori, e una quota viene calcolata non solo sulla base del numero di letture raccolte ma anche «in base al tempo di permanenza dei lettori sugli articoli». Un bello stimolo a fare sempre più giornalismo approfondito, di peso e di qualità.
Con questa ricetta Scroll sembra la perfetta via di mezzo tra chi si è ormai abituato a leggere gratis notizie (sorbendosi in cambio la pubblicità) e chi è disposto a pagare un abbonamento per essere informato (in Italia sono circa tre milioni di persone). Se Scroll arrivasse anche da noi, potrebbe allargare gli introiti degli editori e spingerci a fare sempre meglio. Nelle grandi come nelle piccole testate.
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