La Supercoppa di calcio un caso di sportwashing
mercoledì 8 gennaio 2025
Nel weekend il calcio italiano si è genuflesso allo sportwashing. La Supercoppa italiana disputata a Riad non merita altro commento, a prescindere dal risultato sportivo che passa, ahimè, in secondo piano. Il valore economico dell’operazione (23 milioni di euro nelle casse della Lega di serie A con trattativa, pare, per i prossimi sei anni) costringe a gettare la maschera sul maldestro tentativo di far passare questa remunerativa scampagnata calcistica in Arabia Saudita come un’operazione di diplomazia culturale. Le cose vanno chiamate con il loro nome e quello giusto, in questo caso, è sportwashing, termine utilizzato per descrivere quella pratica attraverso la quale alcuni governi si avvalgono dello sport e dell’organizzazione di grandi eventi sportivi, per sciacquare coscienza e reputazione compromessa del proprio Paese e per far smorzare l’attenzione su condotte illecite e amnesie sui diritti. Una forma di propaganda che non è certo una novità: per avere riferimenti storici si può pensare all’organizzazione dei Giochi Olimpici di Berlino 1936 (Adolf Hitler non era così convinto, fu Joseph Goebbels, non a caso ministro della propaganda, a fargli cambiare idea), al combattimento a Kinshasa fra Muhammad Ali e George Foreman fortemente voluto da Mobutu, dittatore del Congo, alla finale di Coppa Davis nel Cile di Pinochet nel 1976, ai Mondiali di calcio del 1978 nell’Argentina di Videla, ai Giochi Olimpici invernali del 2014 e ai Mondiali di calcio del 2018 entrambi nella Russia di Putin, agli ultimi Mondiali in Qatar del 2022. Recentemente l’altezza dell’asticella dell’ipocrisia è stata resettata dai pesantissimi investimenti del mondo arabo nel calcio: interi club acquistati, grandi sportivi assoldati come testimonial (Neymar, Cristiano Ronaldo, Benzema, ma anche Roberto Mancini che ha dopo chiuso la sua esperienza da CT della nazionale dell’Arabia Saudita). Poco meno di un mese fa la Fifa ha rilanciato ulteriormente, affidando all’Arabia Saudita l’organizzazione del Mondiale del 2034. A contorno di questi eventi colossali si moltiplicano eventi più piccoli (e in tanti sport diversi), come la Supercoppa italiana o quella spagnola, in scena la prossima settimana sempre in Arabia Saudita, a Gedda, in cambio di 40 milioni di euro. Insomma, nonostante le tante denunce, prime fra tutte quelle di Amnesty International, che ricordano che questo fiume di denaro serve a coprire enormi problemi in termini di rispetto dei diritti umani, civili, sociali, la strada sembra purtroppo tracciata. L’importante è fare cassa perché, come dicevano i nostri avi, “pecunia non olet”. Con un amarissimo sorriso di fronte all’immagine più bizzarra entrata nei nostri televisori, quella di un giovane tifoso saudita che sventola orgoglioso la sciarpa del Milan indossando una polo della Juventus, rimandiamo al mittente l’ultima delle giustificazioni alla genuflessione dalla quale siamo partiti: l’idea, antica quanto ipocrita, che “lo sport non deve mescolarsi con la politica”, come sostenne Bernie Ecclestone, imprenditore che fiutò l’affare anche lui, con la Formula 1. Sbagliato, lo sport è politica. È sempre stato e sempre sarà così. Il problema, semmai, è che lo sport e la politica si possono fare in due modi: con o senza ipocrisia. O, ancora più semplicemente, bene o male. © riproduzione riservata
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