giovedì 26 aprile 2018
La parabola esistenziale di Luciano Vassallo comincia in Etiopia ottant'anni fa e finisce alla periferia di Roma, a Marcellina, dove vive. Anzi sopravvive, questo piccolo eroe dimenticato del pallone etiope. Grazie a lui, il capitano, e a suo fratello Italo, l'Etiopia nel 1962 vinse la prima e unica Coppa d'Africa. Lui e Italo erano i “figli della colpa”, nati da una donna eritrea (Mebrak, in italiano Luce) e da un ufficiale dell'esercito coloniale di Mussolini (Vittorio Vassallo). Luciano e Italo avevano cominciato a giocare in una formazione di soli meticci, la Stella Asmarina: maglia nera con una striscia sottile, bianca, che indicava il colore della pelle del genitore che li aveva generati e subito abbandonati. Anime divise a metà, odiate dagli etiopi ed eritrei, quanto dagli italiani, eppure fin da bambino Luciano si sentiva «eritreo, cattolico apostolico e romano». Il calcio è stato il suo riscatto e anche quello del fratello più piccolo con il quale segnò due dei 4 gol con cui nella finale della Coppa d'Africa, ad Addis Abeba, l'Etiopia sconfisse l'Egitto. Luciano ricevette la Coppa dalle mani dell'Imperatore, sua maestà Hailé Selassié. L'apoteosi per quello che rimane il bomber storico dell'Etiopia e miglior giocatore della Coppa d'Africa del '68. Ma sul suo nome il regime fece calare l'oblio. E l'Italia che lo ha accolto da fuggiasco, non ha fatto poi molto per far tornare a brillare la sua stella asmarina.
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