«Ci preoccupiamo spesso di lasciare una qualche eredità consistente ai nostri figli e nipoti; chi può farlo, sogna di trasmettere un cospicuo conto in banca, ma l’autentico educatore sa che occorre tramandare, soprattutto, due dimensioni: le radici, giacché senza radici non si generano frutti, e le ali per volare innanzi. E trasmettere la speranza come eredità significa proprio questo: offrire alle generazioni più giovani radici per consistere e ali per slanciarsi». Citazione lunga, ma rivelatrice, da un piccolo libro su un grande tema: La speranza di Giuseppe Goisis (Edizioni Messaggero, pagine 120, euro 11). L’autore, emerito di Filosofia politica alla Ca’ Foscari di Venezia, ha scritto il libro nei mesi precedenti al Covid 19, ma proprio la pandemia ne ha accentuato l’attualità: infatti, di che cosa abbiamo bisogno, oggi, se non di speranza? Oggi, sotto la minaccia di considerare il prossimo come pericoloso untore, “homo homini virus”? La speranza è analizzata in lucida e accessibile prosa da un’angolazione filosofica e con scientifico rigore, testimoniato dalla ben ragionata bibliografia. Ma inevitabilmente e felicemente la speranza cristiana fa capolino, e dunque anche la teologia ha la sua parte. Fra gli autori citati: per Filone di Alessandria, «la speranza è una gioia prima della gioia»; Dante, cantore della speranza cristiana, usa un verbo di straordinaria pregnanza, “indiarsi”. Del resto, Clemente Alessandrino aveva scritto: «Il Verbo di Dio si è fatto uomo affinché tu impari come l’uomo possa diventare Dio». Di suo, Goisis intravede la speranza come «il possibile dentro l’impossibile, rappresentando quell’energia, di origine emozionale ma anche ragionevole e spendibile storicamente e politicamente, che ci trasporta oltre l’evidenza menzognera dell’ostacolo presunto come invalicabile». Ancora: «La speranza è un’autentica passione per il possibile», interpretata da Charles Péguy, poeta amatissimo da Goisis: «La speranza non è una virtù come le altre, è una virtù contro le altre. Quando loro scendono, lei sale, quando tutto scende, solo lei risale e così le doppia, le decuplica, le allarga all’infinito». Pertinente la distinzione delle tre modalità di approccio al futuro: l’ideale, lo “stato nascente” e l’utopia. «L’ideale consiste in quella prospettiva che parla dentro di noi e plasma la nostra esistenza». Lo “stato nascente”, sotto il profilo individuale, «ricorda la fase dell’innamoramento» che da Max Weber è scesa fino ad Alberoni; mentre un esempio di “stato nascente” collettivo è dato dalle rivoluzioni. Quanto all’utopia, essa è «esercizio sui possibili laterali, che mette in gioco non solo il pensiero, ma anche la fantasia». In ultima analisi, «la speranza è speranza di giustizia; è speranza di tutti e per tutti, o non è». In un rapido passaggio, Goisis riprende la distinzione tra spazio e tempo, molto cara a papa Francesco. Siamo tutti viandanti pellegrini e «lo spirito del nomadismo, relativizzando lo spazio, afferma per converso un primato del tempo e, in particolare, del tempo disponibile, cioè del futuro». Ed è sempre Francesco ad ammonire, come antidoto alla paura e all’indifferenza: «Non fatevi rubare la speranza».
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