Quando ha deciso che era arrivato il momento di fare qualcosa, ha preso il telefono e ha chiamato il 112. Perché esiste il diritto di non poterne più, soprattutto quando hai 96 anni. Così, con la voce rotta dal pianto, ai carabinieri che gli hanno risposto ha detto di aver urgentemente bisogno di aiuto. Il problema? Non poteva più uscire di casa a causa di un veicolo parcheggiato da giorni davanti alla sua porta. L'operatore della centrale lo ha rassicurato e ha inviato subito una pattuglia a casa sua. Ma quando i carabinieri sono arrivati, hanno capito che il dramma dell'anziano era un altro. L'automobile che impediva il passaggio non c'era, e non c'era mai stata in realtà: la telefonata era solo una scusa per parlare con qualcuno.
Ci sono vicende che quando le racconti si consumano. Altre vicende invece, consumano te. Come questa, successa qualche giorno fa a Villa Castelli, provincia di Brindisi. Tutt'altro che insolita. Perché la solitudine è una malattia dilagante per la quale non ci sono medicine. Il 96enne in questione si è accontentato di un'aspirina: ha detto che avrebbe voluto uscire di casa, che era da tanto che non lo faceva per la difficoltà a muoversi autonomamente senza un accompagnatore. Così un militare lo ha preso sottobraccio e ha fatto una breve passeggiata con lui: l'anziano gli ha parlato della sua vita, della moglie che ha perso, dei figli lontani e dei parenti che si prendono cura di lui non facendogli mancare nulla. Tranne forse, un po' di compagnia. Il vecchietto ha ringraziato, ha baciato i suoi soccorritori sulle mani quando gli hanno promesso che sarebbero tornati a trovarlo, e non ha smesso di salutarli da dietro le tende della finestra di casa nemmeno quando se ne sono andati.
La cronaca finisce qui, il tempo continua. E ci lascia un senso di inadeguatezza martellante per mille situazioni come queste, nascoste nella vita degli altri. Quando capita di sbatterci contro, il cinismo non riesce a vincere sullo smarrimento provocato da una condizione che la vecchiaia amplifica, ma che non è esclusiva di chi ha già vissuto molto e affronta l'ultimo traguardo senza eccessive illusioni. Si dice che gli anziani sono stanchi e aspettano solo quel momento. Ma mille esempi dimostrano che non si è mai veramente stanchi di vivere, forse la stanchezza proviene solo da una sterminata malinconia. Che la condizione di non avere compagnia amplifica e rende insostenibile.
Bisogna avere la classe di José Saramago per fotografare il concetto: «La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi. La solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la radice...». E occorre affrontare l'amara verità di chi ha scritto che la cosa peggiore nella vita non è restare solo, ma finire con persone che ti fanno sentire veramente solo.
Per distinguerne i due aspetti contraddittori, la praticità della lingua inglese saggiamente ha creato la parola “solitude” per definire la scelta di essere soli (l'uomo asociale che sta bene con se stesso), ma anche il termine “loneliness” per indicare uno stato di abbandono sofferto e non voluto. Nella lingua italiana, qui insolitamente sbrigativa, per esprimere i due concetti c'è solo la parola “solitudine”. Forse per chiudere in fretta la pratica di una condizione che spaventa quando ci tocca da vicino, e che ci mette con le spalle al muro quando non siamo capaci di evitarla agli altri.
Perché ci vuole coraggio e tanta forza per regalare il proprio tempo, le attenzioni e l'affetto: milioni di individui però lo fanno in silenzio ogni giorno, anche per persone che non conoscono. Pare che non faccia guadagnare nulla, ma che scaldi il cuore e alla fine ti faccia sentire grande, regalandoti quello che manca. Un senso, una direzione, un motivo in più per esistere.
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