venerdì 9 febbraio 2024
Aveva forse cinquant’anni ma sembrava già vecchia, i capelli mezzi grigi e mezzi tinti, il pallore di chi da mesi non vede il sole. E sul viso una smorfia di pena antica, di solitudine lungamente patita. Chiusa in sé, guardava fisso davanti ripetendo a bassa voce parole che non coglievo, ma che mi sembravano sempre le stesse. Era una ricoverata del reparto “chiuso” di un ospedale psichiatrico toscano. Io mi trovavo lì per intervistare il primario. Da un lato all’altro di un corridoio spoglio, su due panchine, ci fronteggiavamo, io col mio pc a tracolla, lei stranita e discinta. Pareva non vedermi. Sul cellulare mi arrivò un sms, mi distrassi. Quando alzai gli occhi la sconosciuta mi si era seduta accanto. Senza guardarmi aveva ripreso la sua litania, che ora sentivo: «Io sono morta, io sono già morta, io sono già stata seppellita…». Una prefica che piangeva, inconsolabile, sé stessa. Dai romanzi di Mario Tobino avevo tratto della follia un’idea “romantica”, quasi fosse una poetica svagatezza. Mi inchiodò, quel mattino, la mole di dolore incisa sulla faccia della sconosciuta. Un dolore incomunicabile, una solitudine assoluta. Solo quel lamento da prefica usciva dalla sua bocca, come un respiro. Tuttavia, mi si era seduta vicino. E ridiceva proprio a me quella sua nenia, come una preghiera. © riproduzione riservata
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