A volte, Sergio, mi capita di pensare a quando tu e mia madre, con una complice condivisione voluta dall'anagrafe, parlavate della vostra giovinezza vissuta in tempo di guerra. Una galleria di ricordi che a me, che potevo solo immaginare, sembravano le scene di un film in bianco e nero. Avevi poco più di vent'anni quando...
«Ne avevo 21 per l'esattezza. Era il settembre del ‘44 quando Rimini iniziava a rimettersi in piedi dopo quattrocento bombardamenti. Rientrai attraverso i varchi squarciati dalle granate nella cinta orientale, il rosso degli antichi mattoni romani era il solo colore in una città di calce e gesso alta appena un metro. Pensa che per orientarmi cercavo le punte dei campanili miracolosamente scampati alla furia degli aerei. Mi sentivo un naufrago alla deriva. Persino il mare non aveva più colore. Porterò per sempre nelle narici il sentore della salsedine sopraffatta dall'odore acre della morte.
Ma un altro ricordo conservo nitido. La notizia della caduta del regime. Come un brivido l'annuncio pervase la città, riunendo o disperdendo la gente a seconda che provocasse esultanza o timori. Poi, una clamorosa ondata di persone inneggianti travolse tutto. Corsi a casa. Mio padre si chiuse nella sua stanza. Ne venne fuori dopo poco, con un involto di roba nera dal quale spuntavano i tacchi degli stivali. Uscì. Attraversò il giardino e con un calcio aprì il cancelletto che dava nell'orto. Vi giunse nel mezzo. Depose il fagotto e iniziò a scavare una fossa. Vi calò dentro, giacca, pantaloni, camicia, cravatta, cinturone, mostrine e stivali. Lo guardavo da lontano mentre, ispirato da una dignità doverosa, seppelliva un bel pezzo della sua vita. Guardò me e mia madre e disse: “E non se ne parli più”».
Ma quando avesti davvero la percezione esatta che l'incubo era finito?
«Quando vidi sul muraglione della ferrovia il primo manifesto a lutto: Gasperoni Elvira, 63 anni, diplomata ostetrica. Sì, Ale, voleva dire che si ricominciava a vivere e a morire uno alla volta. A casa nostra, dopo il primo bombardamento che la colpì di striscio, mancavano una porta e un paio di finestre. Un vicino che aveva la sua quasi distrutta, ci invitò a cercare tra le macerie. Anche quello fu un segnale, perché riappariva il primo flebile senso di comunità».
Quale è, Sergio, il senso di una guerra?
«Mi sono sempre chiesto quale possa essere la logica perversa che alimenta la corsa suicida verso qualunque guerra. Beh, ora sono sempre più convinto che la risposta sia una: l'equilibrio del terrore. Il che significa che per mantenere la pace nel mondo, nessuna delle superpotenze debba avere un numero maggiore di armi dell'antagonista. La pace quindi non è voluta in quanto tale, ma è una necessità che nasce dal ricatto nucleare. La civiltà scientifica mette in crisi la guerra, non perché questa sia in se stessa condannabile, ma in quanto non è più capace di esprimere un vincitore. Non c'è dubbio che le armi nucleari esistenti potrebbero distruggere intere popolazioni, ma anche le armi chimiche e biologiche sono in grado di fare lo stesso, in modo assai più subdolo. Ecco perché il rischio di una nuova guerra sarà sempre in agguato».
Lascito prezioso dell'ultimo tratto del percorso terreno di Sergio Zavoli sono i suoi "dialoghi familiari" con la moglie Alessandra, giornalista a sua volta, che in questa rubrica offre ai lettori di "Avvenire" sintesi a tema di quelle riflessioni.
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