giovedì 17 marzo 2022
Immaginatevi una famiglia, stretta da giorni in un angolo di una cantina di Mariupol. Sono in tanti: una coppia con tre bambini piccoli, due sorelle sui vent'anni, il fidanzato di una di queste – le nozze, credevano, a maggio – due nonni dei bambini e i loro genitori, ottantenni e malfermi. In dodici, nella città assediata.
Gira voce, nella penombra affollata del rifugio, di un nuovo cammino umanitario che consentirà la fuga a mille prigionieri (non è crudele anche questa tattica di lasciare sperare, e subito sbarrare la fuga?) Fuori c'è, se c'è ancora, un'auto. Se venisse l'ora bisognerebbe correre, per arrivare in tempo al varco. Cinque posti, con i bambini in braccio fa otto. Si guardano desolati i figli, tacciono i genitori. Non si potrà andare tutti. E i padri e i nonni certo diranno: andate voi, noi siamo vecchi. Ma che lacerazione sarà, quando ci si abbraccerà senza una parola. E i figli andranno, strappati dall'albero che li ha cresciuti; e i vecchi resteranno, come piante spogliate dall'inverno. Una compagna, a scuola, un giorno mi fece il "gioco della torre": «Sei su una torre in fiamme con le due persone che più ami. Puoi salvarne solo una, quale scegli?». Che gioco terribile, pensai, e non risposi. Ma, in un istante, già in me avevo immaginato, e scelto. Quel "chi?" grava sugli assediati. Che pregano, anche, di essere da quella terribile scelta liberati.
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