Da bambina, quando vedevo la pellicola della cinepresa casalinga tornare indietro velocemente alla fine della proiezione e poi, se lo si voleva, riprodurre il filmato, mi domandavo come quelle immagini potessero ritornare, mentre la realtà non può. Me lo chiedevo quando vedevo i filmini della mia infanzia, con me piccola, e mio fratello, e mia sorella, poi morta adolescente, ancora viva. Com’era possibile che quei nostri volti fossero ancora riproducibili nel film, e mai però nella vita reale?
In qualche modo mi rispondevo che la pellicola è una copia, qualcosa che cattura volti e luce, mentre la vita scorre inarrestabile. Cosa che non mi impediva di guardare a quella scatola gialla, relegata in uno scaffale alto e polveroso di casa, con reverenziale soggezione. E, quanto, con desiderio: stavano prigionieri lì giorni felici, mentre malinconia e solitudine già iniziavano a governarmi. Ma, indietro nel tempo, davvero, proprio non si poteva tornare? Mi offendeva che i muri delle città rimanessero a lungo almeno perfettamente uguali, quando la bambina che io ero stata e li percorreva ogni giorno per andare a scuola era tanto cambiata. ( E ancora più adesso, a sessant’anni, mi turbano le antiche chiese, e certi androni di vecchi portoni di Milano. Identici, loro, indifferenti, mentre noi passiamo).
Un giorno però un amico, docente universitario di Fisica, mi parlò della teoria della relatività, dello spazio-tempo, e disse che il tempo non è quella cosa lineare che avevamo sempre creduto. Non capii niente, ma me ne restò addosso un rimescolio di agitazione e speranza. Dunque, il tempo non era quel Moloch di roccia che io credevo? Il professore disse anche che ogni immagine emana luce, e così come ci giunge la luce di stelle forse già morte, così i nostri giorni sono luce che parte verso l’infinito. Quindi, in un luogo indicibile, si riflettono ancora le nostre ore, e quelle di mille e mille anni prima?
Paura, e reverenza, come da bambina davanti alla scatola della Kodak. E un desiderio struggente di potere affacciarmi a quello spazio, in cui ciò che è stato è ancora. Non saprei davvero da che parte voltarmi. Mia nonna Dina, giovanissima cameriera a Parma a inizio secolo, immigrata dall’Appennino? La sua faccia di ragazzina, e poi i passi pesanti della gravidanza. Quella notte tiepida di maggio, il travaglio, le grida, il primo vagito di mio padre. E vorrei vedere i suoi giochi per le strade, allora povere, dell’Oltretorrente. E la notte che, alpino, tornò dal Don, in treno, pelle e ossa, sfinito, e traversò la città addormentata e infine bussò a casa. L’istante vorrei vedere, in cui tu, nonna, che lo credevi morto, hai schiuso la porta, e lo hai abbracciato.
Vorrei rivivere le estati nelle Dolomiti, noi tre fratelli, belli, sorridenti; quando invece mi straccia il ricordo di te, Luca, moribondo in ospedale, pallido già di morte. Vorrei ritrovare il getto forte e fresco dell’acqua dal lavatoio di quella cascina di montagna, acqua che correva giù dalle cime. E, ancora, bagnarmi la faccia sudata dai giochi di quell’acqua limpida. (Si potrà, quell’acqua, toccarla veramente, berla?).
Ma questo luogo nell’infinito in cui la luce emessa dai nostri giorni converge, esiste? Deve esistere, in Dio, mi dico, con una speranza cocciuta che mi fa di nuovo bambina. Dio non può disperdere nemmeno uno dei nostri istanti, dei nostri primi passi, dei giochi, degli amori, del bene fatto, del male perdonato.
“Niente di ciò che amiamo andrà perduto”, disse una volta Benedetto XVI. E io ci conto e ora, parlandogli fra me, glielo ricordo.
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