mercoledì 31 agosto 2011
Dobbiamo a Francesco Rognoni, anglista dell'Università Cattolica di Milano, la conoscenza in Italia di Anatole Broyard (1920-1990) giornalista e scrittore americano che per anni è stato critico letterario del “New York Times”. Nel 2005 Rognoni curò per Bonnard l'edizione di Furoreggiava Kafka, disincantata rassegna del beat al Greenwich Village, di cui Broyard fu testimone e protagonista. Nel 2008, per Rizzoli, uscì La morte asciutta, nella traduzione di Monica Pareschi, con una postfazione-saggio di Rognoni. Si tratta di due racconti che consacrarono la fama di Broyard negli Usa, antologizzatissimi e apprezzati, per citarne tre, da Norman Mailer, Philip Roth, James Campbell. Rognoni vi aggiunse l'estremo testo Il paziente visita il dottore, in cui Broyard ha raccontato in pubblico la malattia di cui sarebbe morto (cancro alla prostata), con la difficile ricerca di una rapporto autenticamente umano con i medici che lo assistevano. Come mai Broyard scrisse solo racconti e brillantezze giornalistiche, e non si dedicò al romanzo che La morte asciutta, largamente autobiografica, faceva presagire, e per il quale aveva ricevuto (e poi restituito) l'anticipo dall'editore? Perché Broyard aveva un segreto che faceva scoglio all'autobiografia. Era afroamericano, aveva sposato una portoricana di colore da cui ebbe una figlia, e quando ritornò dalla guerra del Pacifico si creò un'altra identità: è quello che si chiama passing, quando un nero si fa passare per bianco. Broyard era avvantaggiato dalla pelle chiara e da tratti somatici non accentuati. Nel 1961 sposò una bianchissima di ascendenza norvegese da cui ebbe i figli Todd e Bliss, i quali solo in extremis seppero del suo passing: egli voleva essere uno scrittore e basta, non un esponente della letteratura afroamericana. La figlia Bliss raccontò tutto in One drop (“Una goccia” di sangue nero), nel 2007. E così il bohémien del Greenwich Village, dove viveva di espedienti nell'ambiente beat, dopo il passing entrò pienamente nell'establishment, abitando in quartieri eleganti, frequentando club esclusivi e diventando critico di punta del “New York Times”. Adesso Francesco Rognoni offre al pubblico italiano Giorno di trasloco (Sedizioni, pagine 144, euro 18,00), una raccolta di scritti di Anatole Broyard sull'uso e sull'amore dei libri. Curiosamente non è una traduzione con testo a fronte: prima c'è l'intera traduzione italiana con la sapida postfazione del curatore, e poi l'intero originale (Moving Day), con la postfazione tradotta in inglese. Il libro è divertentissimo e non richiede le occasionali riserve contenutistiche suscitate dagli altri testi dell'autore. Il titolo viene dal problema di quali libri portarsi dietro quando si trasloca. Broyard non è un bibliofilo collezionista, è uno che i libri li legge, convinto che «un libro comincia la sua vera carriera dopo che lo si è finito. Resta lì come un distintivo, un ricattatore, un monumento, una cicatrice. I volumi allineati nella libreria di una persona sono parte della sua storia, come il ritratto di un antenato». Già questa frase dà idea del tono della narrazione, così spesso aforistica da indurre in citazione. Certi librai eccentrici e scontrosi della Quarta Avenue, per esempio, «ti fissavano in tono accusatorio quando chiedevi un titolo, facendoti sentire come un pretendente inadeguato che chiedeva la mano della loro figlia». Oppure: «Come mi aveva detto un amico, “un romanzo sperimentale è quello in cui l'esperimento fallisce”». Broyard non si fida delle antologie, in cui ogni autore sembra «determinato a sorpassare o a contraddire gli altri, come in un discorso tra giurati. E i racconti non esistono più separatamente: sono appiccicati come il riso stracotto». Ma si salvano i libri di poesia, «forse l'unico esempio di arte moderna in cui un perfetto narcisismo si è sposato a un perfetto disinteresse». Credo che basti come invito alla lettura.
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