La rivincita del calcio e il marchio del potere
mercoledì 21 dicembre 2022
Ancora un articolo e poi, prometto, per un po’ parlerò meno di calcio. Tuttavia, nonostante se ne sia già discusso molto (e la mia opinione sia assolutamente non-necessaria) voglio tornare sulla giornata di domenica, quella di chiusura del Mondiale in Qatar. Non tornerò sulle contraddizioni, sulle ripetute accuse di corruzione, sulle storture, sulle violazioni dei diritti umani. Voglio però sottolineare come in quel contesto, che assolutamente non va dimenticato, domenica siano successe due cose che non possono lasciare indifferenti. La prima cosa è stata la straordinaria rivincita del calcio, intendendo con calcio quello giocato, capace - nel momento più importante e di fronte a una platea di qualche miliardo di umani di tutti e cinque i continenti - di tirar fuori una partita mitologica, di quelle che segnano la storia e l’immaginario di chi l’ha potuta vedere in diretta. Una partita leggendaria che (non ho mai avuto il timore di fare paragoni letterari, non smetterò ora) ha riprodotto il classico canone narrativo dell’epica, intesa proprio come quella di Omero. Due eserciti schierati, mille storie e mille protagonisti dal profilo più o meno alto, vizi e virtù tutti lì, a cercare la loro gloria sul campo di battaglia... ma poi, a un certo punto, tutti fanno un passo di lato, restano i due eroi e va a finire come sempre: Achille contro Ettore. Nella fattispecie non è facilissimo definire chi fra Mbappè e Messi rappresenti meglio Achille e chi Ettore, ma come sempre, l’epica serve proprio a questo, ciascuno può scegliersi l’eroe che preferisce. Personalmente mi ha sempre affascinato Ettore, l’eroe perdente, e se proprio devo dare la mia, ripeto, non-necessaria opinione, in questo caso per mille ragioni Ettore lo interpretava un po’ meglio Lionel Messi. Dunque, almeno ai miei occhi, per una volta Ettore ha vinto, raggiungendo quella Coppa tanto desiderata e scrollandosi dalle spalle il peso di un gigantesco menhir con un nome e un cognome: Diego Armando Maradona. Lionel Messi, ecco la seconda cosa successa domenica, dalle spalle non si è però scrollato il bisht, il mantello nero-trasparente tradizionale del mondo arabo e riservato solo a personaggi speciali, infilatogli dall’Emiro Al-Thani, suo datore di lavoro (peraltro anche di Mbappè) al Paris St. Germain. Così Messi, della sua serata più bella, desiderata e, senza alcun dubbio meritata, sarà condannato a spiegare (a partire dai suoi nipotini) perché nella foto più iconica, quella del momento in cui solleva la Coppa, la sua maglia albiceleste dell’Argentina fosse coperta da una tunica nera. D’altronde ci sono immagini che spiegano la geopolitica dello sport molto meglio dei libri. Lo sguardo complice del Presidente della Fifa Gianni Infantino che, opinione personale, del bishtgate resta il vero imperdonabile responsabile, consolida l’idea che quel gesto, proprio un attimo prima della consegna della Coppa del Mondo, in cui un Emiro veste il campione assoluto, nel momento più alto della sua carriera e al termine di una delle partite più belle della storia del calcio, abbia un solo significato: ricordare a tutti che il potere, se vuole, il gioco più bello del mondo se lo mangia in un boccone. © riproduzione riservata
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