I dati scoraggianti dei test Invalsi generano commenti di firme autorevoli, diversi nello sviluppo ma assai simili nel tono: lamentazioni, ragionevoli eppure sconfortanti perché indicano rimedi che sembrano richiedere non solo tempi lunghi, come in ogni processo educativo serio, ma anche capacità e risorse reperibili chissà come e dove. Titoli speculari: «Così si rovinano le giovani generazioni» (Chiara Saraceno, "Stampa", 16/7) e «Non sappiamo più educare i giovani: solo compiacerli» (Ernesto Galli della Loggia, "Corriere", 15/7), che peraltro descrive solo la primissima parte di un articolo lungo e complesso. Impossibile riassumere in poche righe riflessioni di tale ampiezza. Ma i finali ne riassumono almeno lo spirito. Chiara Saraceno conclude così: «Stiamo riducendo le possibilità di crescita e maturazione di una fetta importante delle giovani generazioni con decisioni sconsiderate e miopi e abbiamo persino l'impudenza di dire che è colpa loro». Saraceno scrive di un «vero e proprio disastro antropologico di cui troppi alunni/e sono vittime a causa della sciatteria e irresponsabilità di chi ha in mano il loro destino». Galli della Loggia punta il dito verso gli educatori, genitori e insegnanti, parlando in prima persona plurale: «Non sappiamo educare le nuove generazioni, dare loro una misura e un retroterra, e quindi un orizzonte di senso per l'oggi e per il domani: riempire di un contenuto positivo di attesa e di speranza gli anni d'apprendistato che essi vivono».
Pensando ai rimedi, ha mille ragioni Andrea Gavosto ("Repubblica", 15/7, titolo: «Una scuola da curare subito») nell'indicare la vera urgenza: «Lo sforzo dovrà durare a lungo, per anni. La scuola cambi prospettiva: la sua priorità non possono essere le garanzie di chi vi lavora o aspira a lavorarvi, anche quando sono legittime. Oggi la priorità sono, più che mai, i ragazzi». Perbacco: e se nella scuola i ragazzi fossero il fine e docenti e non docenti lo strumento, e non viceversa?
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