Caro Avvenire, la storica decisione della Corte penale internazionale dell’Aja in relazione al mandato di arresto per il premier israeliano e per i leader di Hamas (con imputazioni diverse) da parte del procuratore Karim Khan ha avuto un’eco controversa. Si è cominciato a spulciare nella biografia del procuratore cercando di alimentare i dubbi. Si dimentica forse che uno dei pilastri dello Statuto della Cpi è la responsabilità individuale. Khan ha voluto ribadire la forza del diritto più che il diritto alla forza. Quest’azione insieme alle mosse diplomatiche e politiche può dare speranza a una soluzione in Medio Oriente.
Daniele Piccinini
Caro Piccinini, lei è un attento e acuto osservatore delle vicende internazionali. Giustamente, sottolinea la portata
della richiesta di un mandato di arresto per il premier israeliano. Un unicum finora per il leader eletto di una liberal-democrazia occidentale. Risulta allora importante precisare i ruoli e le procedure per meglio comprendere che cosa è in gioco. Il procuratore Khan ritiene che vi siano prove sufficienti per incriminare Netanyahu e ne ha sollecitato la cattura: dovrà ora decidere un collegio di giudici terzi, come in Italia un Gip valuta i provvedimenti proposti dal pm titolare di un’indagine. Un percorso di garanzia che, se arriverà il sì, sgombererà il campo da ogni ombra (qualora davvero ve ne fossero) sul magistrato britannico musulmano di origine pachistana, già difensore, in quanto all’epoca avvocato, di uomini politici del Sud globale accusati di gravi crimini.
Ci si deve tuttavia interrogare su quanto sia stata opportuna la mossa del rappresentante dell’accusa presso la Cpi nel quadro generale della crisi in Medio Oriente. In questo caso, la forza del diritto è purtroppo molto limitata. Israele non riconosce l’autorità della Corte e si è potuto procedere solo perché la Palestina ne è membro e i presunti crimini sono avvenuti sul suo territorio. Per eseguire il mandato, quando il destinatario uscisse dai propri confini, sarà necessario fare affidamento sulle forze dell’ordine degli Stati aderenti, molti dei quali si sono detti indisponibili (Italia compresa). La prima conseguenza è stata poi il ricompattamento a Tel Aviv delle forze politiche intorno al premier e al ministro della Difesa Yoav Gallant (anche lui inquisito all’Aja), riducendo le prospettive di una tregua a Gaza. Anche la credibilità della Cpi nei Paesi e nelle opinioni pubbliche pro-Israele subirà un colpo con l’equiparazione di fatto tra Netanyahu da una parte, Sinwar e Deif, artefici del pogrom del 7 ottobre, dall’altra.
Potrebbe replicare, caro Piccinini, che la giustizia è chiamata a fare il suo corso rispetto alle responsabilità individuali senza curarsi degli effetti collaterali. È vero per i sistemi penali delle singole nazioni, non del tutto per una Corte, che è in sé anche un organismo politico, in quanto non inserito in un quadro di equilibrio tra diversi poteri, come accade per l’ordine giudiziario nel nostro sistema costituzionale.
Non nego certo le violazioni del diritto umanitario internazionale compiute da Israele (ne ho scritto più volte su “Avvenire”). Né il fatto che chi le ha ordinate debba risponderne. Ma se l’obiettivo è dare ora speranza per una soluzione alla guerra, sono perlomeno scettico. Si può sottoscrivere l’antico brocardo “sia fatta giustizia e perisca il mondo”. A Gaza il mondo sta già morendo. Servono forse altre vie più efficaci per fermare le armi.
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