Si sente dire spesso: «La tecnologia non è né buona né cattiva, dipende dall'uso che ne facciamo». Ma da un letterato d'avanguardia (o che si pensa tale) ho sentito dire: «Il navigatore mi ha cambiato la vita». E a proposito della cosiddetta rivoluzione informatica la formula in uso non è molto prudente, dice con un certo trionfalismo: «La tecnologia che ha cambiato le nostre vite». È vero che di solito si opta per la versione neutra o per quella ottimistica secondo che si tratti di guai evidenti (false notizie, finanza piratesca, truffe, criminalità, pornografia, persecuzioni via internet) o invece di accattivanti comodità comunicative e informative. Ma in tutti e due i casi si mette un velo sul fatto che non solo noi usiamo dispositivi tecnici, ma questi dispositivi usano noi, provocano assuefazione, ci colonizzano dettando forme e contenuti, modi e tempi della nostra comunicazione e socialità. La socialità dei “social” è un genere del tutto nuovo di socialità o, se si vuole, non propriamente socialità, è il suo superamento, la sua mutazione e negazione. La pratica imposta, prescritta, vivamente consigliata, del distanziamento sociale e della rarefazione dei contatti fra esseri umani in carne e ossa per finalità antiepidemiche, forse ci sta chiarendo le idee. Per la prima volta l'esperienza intensiva di una tecnosocialità esclusiva è vissuta in massa come frustrante, alienante, insufficientemente umana. Questa è davvero una novità istruttiva che può preludere a una diffusa risposta del contatto diretto con la realtà e con gli altri. Mi è capitato di parlare con alcuni fanatici credenti nella rete che ora, costretti nella rete, si sentono depressi e oppressi, avvertono perfino fisicamente una deprivazione delle normali e vitali attitudini comunicative. Sembra ovvio ma ogni tanto lo si dimentica: quando usiamo quotidianamente e per ore una tecnologia, non si tratta propriamente di uso nel quale lo strumento ci lascia esattamente come siamo e eravamo. Si tratta di una pratica appunto “interattiva” che ci modifica omologandoci allo strumento. Se poi lo strumento è straordinariamente complesso e totalizzante come un computer o uno smartphone, la pratica interattiva finisce per dominarci, perché ci trasmette la sensazione illusoria di poter entrare in contatto con tutta la realtà e tutto il sapere attraverso una maneggevole e in apparenza servizievole macchina che moltiplica, ingigantisce i nostri poteri mentali. Fa credere di essere più intelligenti, informati, colti, aperti, consapevoli e perfino migliori. Purtroppo molti segni ci dicono invece che non è così. Il pericolo maggiore è sentirsi più liberi essendo più dipendenti dalle macchine.
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