«Se continui così finirai a fare lo spazzino!». Questa era la minaccia quando, adolescente, portavo a casa una pagella accompagnata dal commento «può fare di meglio». Ormai, come dice un vecchio proverbio, sembra che il meglio sia diventato nemico del bene. Si può infatti temere che, a furia di successi scolastici, un figlio sia ammesso in una grande università per diventare ingegnere o economista e passi poi la sua vita in un ufficio, dietro lo schermo di un computer, mancando così una professione più umana, ricca di incontri, all'aria aperta, e situata al centro della "cultura dello scarto". Nella pièce teatrale Cassé di Rémi de Vos, Federico è vittima di una ristrutturazione aziendale. È scampato a tre campagne di licenziamenti e a due ondate di suicidi che si sono abbattute sulla ditta. Ora, sebbene sia laureato, ha il compito di svuotare le pattumiere. Questo permette di «risparmiare sul personale delle pulizie». Bernardo, il suo amico sindacalista, se ne scandalizza: «Dov'è la tua dignità, Federico?». La veemenza con cui glielo chiede viene dalla convinzione che il suo collega sia demoralizzato, sottomesso, schiacciato dal "grande capitale" e probabilmente già sull'orlo del suicidio. Federico ribatte che sta molto bene, che non è mai stato così bene. Ecco la sua spiegazione: «La mia azienda è al sesto piano. La direzione mi ha chiesto di non utilizzare l'ascensore e dunque passo dalla scala di servizio. E ti prego di credere che sudo come un animale. […] Quando una pattumiera è piena, la svuoto e tutti mi ringraziano. Cominciavo ad averne abbastanza dell'informatica. È talmente disumana l'informatica. Adesso parlo con le persone e le persone mi parlano. Non sapevo fino a che punto mi mancasse il contatto umano. Da quando porto giù la spazzatura, ho ritrovato il gusto della vita […] Avevo muscoli che non funzionavano più e che si rimettono in moto. Da informatico muovevo solamente le dita delle mani. Adesso faccio uso di tutto il mio corpo. Lo ritrovo e credo che non potrei più farne a meno...». Inutile dire che l'amico sindacalista fa molta fatica a comprendere; per lui, questo discorso, questo piacere di portar giù la spazzatura invece di gestire una banca dati, possono soltanto provenire da una depressione così acuta da auto-censurarsi. Conosco uno spazzino a Friburgo, Michel Simonet, che è l'autore di un libro di successo nella Svizzera francofona. La rosa e la ramazza è una raccolta poetica sul suo mestiere; le meditazioni che vi compaiono sono state quasi tutte registrate con un dittafono durante le pause vicino al suo carretto per le immondizie, un carretto sempre ornato da una rosa offerta dal fioraio del quartiere prima dell'apertura del negozio. Michel ha fatto studi di economia e di teologia. Una volta faceva il contabile, ma ben presto è diventato "cantoniere" – per convinzione: «Per quanto mi riguarda – racconta – occupavo prima un posto burocratico climatizzato-sterilizzato che ho lasciato volontariamente per operare manualmente sotto un cielo variabile». Il suo volto è
bruciato dal sole come quello dei vecchi marinai: «Abbronzatura proletaria: viso, braccia e collo solamente, il resto è sempre coperto da grossi pantaloni e dal gilè fluorescente obbligatori, per la sicurezza e per il pudore». Il proletario d'ufficio non può godere di quella abbronzatura né di quell'esercizio fisico, a meno di non poterseli permettere in un centro fitness o sotto una doccia Uv. Terminale cieco di una multinazionale, non sa neanche esattamente ciò che sta facendo, mentre il netturbino, anche se denigrato, ha un lavoro riconosciuto come "socialmente utile", al tempo stesso evidente e mistico, lavoro che «crea pulizia che per definizione è assenza di sporcizia e dunque invisibile o immateriale». Lo spazzino organizza lo spazio pubblico meglio del pubblicitario o del sedicente politico, poiché lo libera, lo sgombra, lo apre al passaggio e all'incontro: «Il ruolo dello spazzino, officiante e purificatore dei templi e delle agorà dei tempi moderni che sono le strade, i parchi e le piazze, consiste nel
riabilitare a parecchi livelli e in modesta sinergia con altre buone volontà e capacità questi luoghi di intensa natura umana». Perché la natura umana, Simonet ha avuto il tempo di conoscerla, e non soltanto in quello «specchio talvolta sbalorditivo della nostra società dell'abbondanza» che sono i rifiuti di città. Si è avvicinato al barbone, l'alcolizzato, la prostituta, il tossicodipendente, a tutti quelli che vagabondano o che son finiti nel quartiere della stazione prima del sorgere del giorno, ma anche alla donna anziana stanca, il bambino solitario, gli innamorati che si fermano davanti alla sua rosa: «La nostra semplice presenza nella città ci fa partecipare, per caso o per grazia, a molti avvenimenti tristi o gioiosi e ci offre l'opportunità di compiere altri movimenti oltre al quello semplice delle braccia che ramazzano. Siamo dunque al tempo stesso al cuore della società e vicino ai suoi sfinteri: siamo i re della via e ci facciamo carico del crimine di lesa-pulizia». Michel si lamenta soltanto di quelle macchine per la pulizia motorizzata che alcuni vorrebbero imporgli al posto della sua scopa e del suo rastrello. Altrimenti, spesso, canta sotto il cielo, al ritmo di una pulizia di cui i gesti somigliano a quelli del gondoliere. E canta inni: la domenica infatti fa il cantore bizantino. Ecco la miseria e al tempo stesso la grazia del nostro tempo. Le grandi imprese ipertecnologiche vanno a finire in lavori così disincarnati e così stupidi, che ci spingono a rivalutare i mestieri manuali più umili, e il padre di famiglia veramente responsabile può ormai minacciare il figlio finito su una cattiva strada (che è forse quella di un certo successo) dicendogli: «Se continui così, finirai alla Bocconi!».
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