Quanto alla scuola, all'imparare e all'insegnare, cose di cui tutti abbiamo bisogno nel corso della vita, direi questo: fra il piacere e il dovere, mi sembra che oggi come mai prima la scuola funzioni bene nell'uccidere il piacere (di studiare e imparare) senza però instaurare il dovere di farlo. Il fatto è che non si può realmente studiare senza mescolare lo studio alla vita. La scuola invece li separa.
Utopie pedagogiche ne sono state pensate molte. Sembra che servano a poco. Ma nello stesso tempo aiutano a vedere e misurare l'insoddisfazione per l'istituzione scolastica. Costruire istituzioni è diventata sempre di più una necessità della vita sociale organizzata e controllata dallo Stato. Ma non si vive di istituzioni. Le istituzioni da un lato proteggono e rassicurano, dall'altro ci rubano a noi stessi, ci espropriano dell'esperienza che facciamo di persona: la ignorano, la dichiarano inutile, non sanno che farsene. Le istituzioni ci comunicano anonimamente che la realtà di ciò che ognuno di noi è, di quello che ci succede, è irrilevante, non conta.
Come ogni altra istituzione, la scuola prescinde dagli individui. Ma se c'è una cosa che conta per chi deve imparare e studiare, è cominciare presto a fare i conti con quello che si è e con quello che la vita è per ognuno, a qualunque età. Perciò il vero e buon insegnante dovrebbe essere metà dentro e metà fuori la scuola. Dovrebbe insegnare che la scuola ha il dovere di entrare in rapporto con tutto ciò che avviene altrove, fuori. La scuola è un luogo in cui ci si esercita. Ma esercitarsi a scoprire, immaginare, usare la volontà e la memoria, essere responsabili, non si può farlo per la scuola. Si deve farlo per qualcosa che è al di là della scuola. L'insegnante dovrebbe far capire agli studenti che la prima cosa da imparare è diventare autodidatti. Solo a un autodidatta si può insegnare qualcosa.
Infine, una volta l'anno, l'insegnante dovrebbe passare almeno un'ora a parlare con ogni singolo studente, per capirlo e farsi capire. Non dovrebbe essere spiacevole.
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