venerdì 27 gennaio 2006
Come sono poveri coloro che non hanno pazienza! Quale ferita è mai guarita se non col tempo? Così Shakespeare, che ci ammonisce su una virtù poco esaltata nei nostri giorni urlati, frenetici, sensibili fino allo spasimo ai diritti, ma sordi ai doveri. Quelli della mia età che hanno fatto il liceo classico ricordano il grido di Cicerone contro Catilina, suo avversario giudiziario: Quo usque tandem abutere patientia nostra? Che alcuni abusino della pazienza altrui è un dato di fatto. Ma oggi è più facile che la scintilla dell'attacco o dell'insulto trovi non l'acqua della pazienza ma la paglia della collera. In realtà, è proprio la natura a insegnarci la pazienza coi suoi ritmi stagionali, con le sue gestazioni per lunghi mesi, col fluire lento del tempo. Balzac, il famoso romanziere francese, scriveva appunto (nelle Illusioni perdute) che «la pazienza è ciò che nell'uomo più somiglia al procedimento che la natura usa nelle sue creazioni». Non per nulla lo stesso Shakespeare citato evoca la guarigione di una ferita la cui cicatrizzazione non è istantanea. La pazienza è, quindi, sorella della saggezza che sa distinguere tra il possibile e l'impossibile, che sa vincere lo sfogo passionale nella consapevolezza che esso non risolve ma peggiora le situazioni, che conosce la fragilità umana e i limiti del nostro pensare e agire. In questa luce si può dire che la pazienza è sorella della speranza perché conserva in sé la fiducia che i grovigli possano essere anche sciolti e non solo tagliati con una spada e che le persone possano ricredersi e mutare senza ricorrere sempre e solo alla verga o alla punizione fisica. Certo, come dice il proverbio, la pazienza ha un limite (anche per dovere di giustizia), ma facciamo sì che questo limite sia il più lontano possibile.
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