Giorni fa ho scritto, qui, che la vita scorre «infinitamente». Infinitamente? Dopo ho temuto di venire preso alla lettera: la vita della terra non è infinita, anzi sta perdendo colpi, sempre più; lo sentiamo con una crescente ombra sul cuore. Sicché l'indomani ho dovuto spiegare che l'avverbio faceva parte di una figura retorica. Quale? Non ne trovavo il nome: mi ronzava alle orecchie, come un insetto, tendevo la mano e non riuscivo ad acchiapparlo. Dopo aver sofferto un bel po' di tempo, ho telefonato a un amico sapiente. Ha circa la mia età: e il nome della figura retorica non veniva neppure a lui. Solo il giorno dopo mi ha chiamato, a sua volta: «Può essere iperbole?». Sì, iperbole, giusto. Cosa significa il piccolo episodio? Anche da giovane stentavo a ricordare qualche nome; ed è passato alla storia come Gustave Flaubert faticava, giorni e giorni, a trovare le mot juste. La specifica difficoltà che ho esposto rientra, dunque, nella ordinaria fisiologia della scrittura? Temo di no. A volte mi pare che la scrittura, con la sua miracolosa capacità di espandersi oltre ogni intenzione, di vivere di se stessa, stia naturalmente abbandonando i miei anni tardi: come ogni vivente abbandona il battello che affonda. A volte mi sembra di avvertire l'ala buia dell'afasia sfiorarmi la testa.
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