Anche al cinema si improvvisa, ma – come sempre accade nell'arte – solo quello che è stato a lungo studiato e preparato può essere oggetto di improvvisazione. È una questione di sguardo, in primo luogo, e insieme di tempismo. Il giorno in cui fu girata la celebre scena della danza macabra, per esempio, le riprese del Settimo sigillo erano pressoché terminate. La troupe stava smontando l'attrezzatura e anche gli attori erano pronti a togliersi i costumi di scena. Proprio in quel momento, però, Ingmar Bergman si accorse di una strana nube che avanzava nel cielo, imprimendo alla luce una tonalità inconsueta. Il tempo di dare qualche indicazione essenziale e la cinepresa era di nuovo in azione. Una delle sequenze più famose nella storia del cinema, fu realizzata in pochi minuti e in modo quasi casuale. Eppure tutto, nel racconto, ruota attorno a quel piccolo corteo composto da personaggi che nulla avrebbero in comune se non ci fosse la morte a guidare i loro passi. Anzi, la Morte, perché nel Settimo sigillo è con la sua personificazione che abbiamo a che fare: il mantello nero, il cappuccio dello stesso colore, il volto bianchissimo dell'attore Bengt Ekerot che spicca come una maschera, cedendo qualcosa della sua fissità solo quando le vicende umane sembrano suscitare una specie di ironica condiscendenza.
Ambientato in un Medioevo stilizzato, nel quale agisce tuttavia la memoria storica della Peste Nera, Il settimo sigillo rappresenta il punto più alto dell'interrogazione religiosa condotta dal grande cineasta nella prima parte della sua carriera. Figlio di un pastore protestante, Bergman (di cui ricorre quest'anno il centenario della nascita, avvenuta il 14 luglio 1918 a Uppsala; morì a Fårö il 30 luglio 2007) si è a lungo confrontato con la dimensione di una spiritualità nella quale, come diceva, "tolta la teologia, rimane il sacro". A questo clima – che caratterizza altri suoi capolavori, come Il posto delle fragole, uscito anch'esso nel 1957 – subentrerà con il tempo una visione di totale disincanto e di sostanziale disinteresse nei confronti dell'esperienza religiosa, che pure tornerà ad affacciarsi nel sinfonico Fanny e Alexander del 1982.
Questo sviluppo successivo nulla toglie alla forza e alla profondità espressive del Settimo sigillo, la cui trama si incentra sulla partita a scacchi che Antonius Block, il cavaliere interpretato da Max von Sydow, intrattiene con la Morte al ritorno dalle Crociate. L'uomo vuole guadagnare tempo, ma quello che più gli preme è strappare qualche segreto alla Morte stessa. La quale, invece, proclama di non avere nulla da svelare, non avendo bisogno di nulla al di fuori delle vite che miete sulla terra. Nel viaggio verso il castello dove lo attende la moglie, Antonius si imbatte in una serie di incontri che di volta in volta rafforzano o contraddicono le ragioni della sua ricerca. Più speditamente di lui pare procedere il suo scudiero, Jöns (il ruolo è affidato a Gunnar Björnstrand), disilluso fino all'agnosticismo. Le domande di Antonius sono destinate a rimanere senza risposta, dunque, ma questo non gli impedisce di praticare una solidarietà molto simile al sacrificio. Finora temuta, la sconfitta viene accettata e addirittura affrettata, con un atto di rinuncia che porta in sé un paradossale germe di salvezza.
Molti, nel Settimo sigillo, i riferimenti simbolici, spesso giocati sul piano del rapporto tra le arti. All'origine del film c'è l'atto unico Pittura su legno, che Bergman aveva composto in gioventù, ma è evidente l'influenza dei Carmina Burana di Carl Orff e risulta decisiva la metafora del teatro. Solo ai saltimbanchi, forse, sono rivelate le verità che restano incomprensibili perfino per i sapienti.
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