Negli ospedali c'è la battaglia, la linea del fuoco. Milano invece sembra una retrovia immobile, dove tutto si è fermato. La reclusione si è fatta più severa. Si esce davvero solo per la spesa o per il cane, e tutti con la mascherina. Ho incrociato una signora elegante che vedendomi arrivare si è rannicchiata nell'androne di un portone. Ho avuto voglia di prenderla a male parole: distanza di sicurezza, non vuol dire guardare l'altro come un appestato. La paura, sta cominciando a farci male. Qualcuno, sento, lascia in quarantena due giorni la spesa, temendo d'esserne contaminato – e non mi pare che l'Oms l'abbia consigliato. Questo necessario isolamento, quanto ci è innaturale. Non abbracciare i figli, non fermarsi a chiacchierare col vicino: andiamo tutti di fretta, testa bassa e sguardo a terra. Il nemico, è nell'aria. Ma è tanto angoscioso l'evitarsi, e il silenzio nelle strade, che mi domando come lo reggano i soli, i fragili, i più vecchi. La paura rende aggressivi. Piccole liti sorgono nelle code davanti ai supermercati, per un niente. Le cassiere passano la merce bruscamente, arrabbiate di dover lavorare. Non una battuta, non un sorriso. È così mesta la città trasfigurata, che uscire è peggio che stare chiusi in casa. Passi davanti alle saracinesche calate. Il caffè dell'angolo è chiuso, chiuso il barbiere e la tintoria, chiuso il bar cinese dove si tenta la fortuna. Un posto che accoglie tutti, ad ogni ora, e dove io vado perché, dopo anni che ha aperto, comincia a ricordarmi certi vecchi bar di una lontana Milano. La mia città in questa giornata grigia pare un cuore che si è fermato. Ma tornerete, vero? Domando nella strada deserta. Solo il mio cane mi guarda, coi suoi dolci occhi nocciola.
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