La lotta di classe dei ricchi del calcio
mercoledì 21 aprile 2021
Qualche mese fa la più antica società sportiva d'Italia, la Reale Società Ginnastica di Torino, fondata nel 1844 e messa alle corde come tutto il mondo dello sport, ha lanciato un crowfdunding, quella che in altri tempi si sarebbe chiamata "colletta". In sostanza, di fronte all'impossibilità di trovare le risorse per l'attività di vertice (il campionato di serie A1 di ginnastica artistica, bugdet complessivo 10mila euro) con enorme dignità, l'allenatrice Veronica Servente, ha detto: «I settori agonistici vengono finanziati dall'attività di base che con la pandemia si è ridotta drasticamente. Ci sentiamo un simbolo; non chiediamo elemosina, ma una specie di… sponsorizzazione».
Lo sport, quello di tutti gli altri, è agonizzante, come mai successo negli ultimi settanta anni di storia. Quindici milioni di persone che hanno (anzi, avevano) a che fare direttamente ogni giorno con lo sport hanno tenuto il motore dello sport italiano acceso, vedendosi dimenticati o ignorati da sostegni o ristori. Atleti, allenatori, dirigenti, arbitri, volontari che hanno visto le loro palestre chiuse, le loro piscine prosciugate. Un mondo come quello delle ginnaste torinesi, alla ricerca di 10mila euro per salvare una stagione. Un mondo che, al momento attuale, si è visto assegnare dal Pnrr (acronimo che sta per Piano nazionale di ripresa e resilienza e che applicherà in Italia il Next Generation Eu) 700 milioni di euro, una sola volta nella storia e per tutti insieme. Poco più dello 0,3% del totale delle risorse a disposizione in arrivo dall'Europa.
A questi quindici milioni di persone, chi la spiega l'operazione SuperLeague del calcio, finanziata una tantum con 3,5 miliardi di euro della banca JPMorgan e dove i tre club italiani presenti fra i dodici fondatori, riceveranno (solo per la presenza in SuperLeague) ogni anno 350 milioni a testa, senza neppure doversi affannare a mantenere la categoria? Chi spiegherà al mondo dello sport comunemente chiamato "di base", quello che produce risparmio al Servizio sanitario nazionale, qualità della vita, inclusione, rispetto delle regole, cittadinanza attiva e qualche volta anche medaglie olimpiche che le dodici squadre di calcio più ricche e potenti d'Europa devono salvarsi in questo modo?
«Se non hanno pane, che mangino brioches» è la frase che Maria Antonietta avrebbe pronunciato riferendosi al popolo affamato, durante una rivolta dovuta alla mancanza di pane, per l'appunto. Sono tempi duri per tutti, ma è curioso come nel mondo dello sport sembra che la lotta di classe la facciano i ricchi. Credo, ma la mia è una semplice opinione, che ora partirà il tempo delle negoziazioni e delle trattative. Sarebbe criminale, tuttavia, ancora una volta dimenticarsi di tutto il resto del mondo dello sport, perché se il vertice dovesse cannibalizzare la base per salvare se stesso, sarebbe davvero come in quelle patologie autoimmuni, dove le cellule attaccano il proprio organismo. Un risultato è già arrivato: ed è stata una sollevazione popolare. D'altra parte saranno questi tifosi-clienti a decidere l'esito della secessione, qualora avvenga. Non per dichiarazioni più o meno romantiche, ma semplicemente perché dovranno validare il modello, acquistando o meno, questo "nuovo prodotto".
Attenzione, però: tanti, tantissimi tifosi-clienti sono parte di quei quindici milioni di connazionali che oggi guardano le loro società dilettantistiche, le loro associazioni, le loro squadre ferme e in agonia, non hanno più né pane e né brioche. E quando si ha fame si diventa cattivi.
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