Quando vivevo a Istanbul, abitavo nel convento domenicano dei Santi Pietro e Paolo la cui biblioteca fu di grande aiuto a uno dei più grandi filologi del XX secolo, cioè Erich Auerbach, di origine ebraica. Uno dei suoi libri monumentali intitolato Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale è stato scritto durante la Seconda guerra mondiale grazie a questa biblioteca di religiosi. Proprio ad Istanbul, grazie all’interessamento del Nunzio Apostolico, monsignor Angelo Giuseppe Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, il filologo tedesco ricevette l’autorizzazione a recarsi regolarmente nel convento dei Domenicani a Galata, e lì poter leggere e studiare la collezione di Patrologia, del Migne. All’epoca, vedevo tutti i giorni quella collana sterminata, e spesso pensavo a tutti gli ebrei fuoriusciti dalla Germania nazista e rifugiatisi, tra l’altro, nella laica Turchia. Come Auerbach, tanti studiosi avevano concepito e realizzato opere importanti della loro carriera in un tempo difficile. Molti di loro erano di tradizione ebraica. Ecco allora che spessissimo pensavo e ripensavo a questi grandi intellettuali in esilio – forzato evidentemente – che non avevano perso tempo, ma con tenacia avevano superato l’angoscia della guerra mondiale, scrivendo opere che hanno segnato il pensiero europeo.
Questo esempio mi torna in mente in maniera netta e anche prepotente oggi, quando tutta l’Europa è a casa, quando bisogna cercare di “ammazzare” il tempo. Stay at home, io resto a casa sono gli hashtag che si fanno eco nei social network. Io certo resto a casa, ma poi a casa che si fa? Molte ormai sono le proposte e il tempo a disposizione è tanto, ma magari non si riesce ad ammazzarlo. Siamo quindi condannati, questa volta, a una specie di esilio in casa. Il confinamento è a casa propria, quando l’idea del confino è di una terra lontana, alla frontiera.
L’esempio di Auerbach è luminoso perché ha saputo mettere il tempo d’esilio a profitto del pensiero umano. Certo, non tutti siamo intellettuali, pensatori, filosofi, teologi, però tutti abbiamo un’intelligenza, abbiamo una coscienza. Non si tratta solo di implorare il Cielo, di pregare meccanicamente. Si tratta di andare a fondo, a picco della propria interiorità, per indagare i nodi più stretti di quello che abbiamo vissuto finora senza mai darci il tempo di esaminarlo. È questo, e non altro che va coltivato, pur nei doveri di sopravvivenza quotidiana. Abbiamo un patrimonio inestimabile: il tempo. Non lasciamoci trovare in scacco dalla paura, un po’ come le vergini stolte che non avevano pensato all’olio per tenere la lampada accesa al momento dell’arrivo del Signore. La vera perdita sarebbe fermarsi nella produzione della capacità di riflessione. Il virus non aspetta altro. L’esilio può allora diventare fecondo, anzi fecondissimo, può irrigare tutto un continente di un pensiero nuovo, di un nuovo modo di vedere, di guardare, di affrontare la realtà.
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