Roland Barthes, Walter Benjamin, Michail Bachtin, Jean-Paul Sartre, György Lukács, Erich Auerbach, Thomas S. Eliot, Virginia Woolf... Benissimo. Ma c'è mai qualcuno che si ricordi di Edmund Wilson? Interrogato su Wilson, ricordo che un nostro comparatista a Stanford distrattamente rispose: «Sì, una specie di Umberto Eco americano». Evidentemente non basta vivere e insegnare letteratura vent'anni in America per avere un'idea della critica americana.
Edmund Wilson è stato con Eliot il più importante, originale, autorevole e forse ingombrante critico di lingua inglese del Novecento: eppure è difficile sorprendere uno storico della critica, un teorico, un accademico (o un anglista italiano) nell'atto di citarlo o nominarlo. Gli accademici, anche americani, gli sono stati spesso ostili. Oggi perfino Harold Bloom nei suoi volumi monumentali trascura un critico "giornalista" come Wilson. Fa eccezione George Steiner, che nel suo Linguaggio e silenzio (1967) azzarda un giudizio come questo: «Edmund Wilson scrive la miglior prosa d'America». Ricordo almeno tre dei suoi libri più famosi: Il castello di Axel (1935, su simbolismo e modernismo), La ferita e l'arco (1941, su Dickens, Kipling, Joyce, Hemingway, Casanova, Sofocle), Stazione Finlandia (1940, sul pensiero rivoluzionario da Babeuf ai bolscevichi).
Chi voglia sapere di più su un tale prosatore può leggere nel n. 41 di Nuovi Argomenti un ottimo saggio di Michael McDonald, il quale cita ben tre biografie di Wilson (che qualcuno ha definito "il Plutarco americano") uscite dal 1995 a oggi. Scrive McDonald: «Nessuno tra i seri accademici del secolo scorso ha saputo fare altrettanto per elevare il gusto e la sensibilità del pubblico americano. Wilson era un democratico delle lettere, un uomo che credeva nella capacità del cittadino medio di elevare il proprio spirito e la propria vita attraverso la letteratura».
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