Il concetto basilare del nuovo e nutriente libro di Sergio Belardinelli, L'ordine di Babele (Rubbettino, pagine 136, euro 14,00), riguarda la trascendenza dell'uomo e la sua strutturale “eccentricità”. A differenza degli altri animali, infatti, «l'uomo non è incentrato in sé stesso; è capace di mettersi al posto di un altro; di guardarsi, di immedesimarsi e nel contempo di prendere le distanze da sé». E questa trascendenza si esprime soprattutto nel linguaggio.
Belardinelli, che insegna Sociologia dei processi culturali all'Università di Bologna, dedica pagine interessantissime alla «traduzione linguistica come modello di dialogo interculturale»: «Parlare è tradurre, perché anche tra chi parla la stessa lingua, bisogna fare i conti con zone di intraducibilità». Perfino la comunicazione più banale nasconde uno sterminato «non detto».
Il confronto con altre culture, come con altre lingue (traduzioni) non fa perdere identità, anzi, può rafforzarla: i migliori traduttori, infatti, sono coloro che hanno maggiore dimestichezza con la propria lingua, anche se non devono certo ignorare la lingua dalla quale traducono. Fra le eccezioni di eccellenti traduttori con scarsa familiarità con l'originale, Belardinelli cita «i tragici greci tradotti da Salvatore Quasimodo», il quale, peraltro, è celebre soprattutto per la traduzione dei lirici, non dei tragici greci (Caterina Vassalini adiuvante).
L'apertura all'altro, al diverso da sé, è il fondamento del pluralismo culturale, ormai irreversibile nella società di oggi, senza che, pregiudizialmente, venga intaccata l'identità delle singole culture. Il capitolo «Verità, libertà e democrazia» merita qualche precisazione. Belardinelli giustamente afferma che «ben lungi dal rappresentare una gabbia per l'autonomia e la libertà degli individui, proprio la verità può esserci d'aiuto per dare il giusto senso alle nostre scelte e alla stessa dialettica democratica». Infatti, con Carl Popper, senza l'idea di verità «non possono esserci criteri oggettivi di ricerca» e, quanto più sono difficili le questioni, tanto più la ricerca va compiuta «con la fiducia che certi argomenti siano migliori di altri semplicemente perché più adeguati alla “cosa stessa”, come direbbe Aristotele» (cioè più vicini alla verità che, secondo l'adagio scolastico, è adaequatio rei et intellectus).
Tuttavia, quando l'autore scende al piano socio-politico, sorge qualche perplessità. Egli scrive: «Le nostre decisioni politiche, ad esempio, vengono prese a maggioranza, non perché la verità non esiste, ma semplicemente perché, grazie a una certa idea che abbiamo dell'uomo e della sua incommensurabile dignità, è molto meglio una decisione sbagliata, resa con il consenso della maggioranza, che una decisione giusta imposta con la forza. Altro che relativismo». D'accordo che il bene non deve mai essere imposto con la forza, tuttavia su temi che Belardinelli stesso considera importanti e divisivi quali, innanzitutto, il diritto alla vita, andrebbe almeno prevista l'obiezione di coscienza, dato che il criterio di maggioranza è una corretta procedura democratica, ma non un giudizio veritativo.
Insomma, l'autore, che pur deplora l'indebolimento di un ethos comune e auspica «un ideale antropologico universale», non si spinge a specificare quale sia tale ideale antropologico universale. Insomma, non affronta in questo saggio il tema della legge naturale, alla quale le questioni affrontate andrebbero ricondotte. D'accordo che è un tema assai arduo che neppure la Commissione teologica internazionale ha saputo dirimere con il documento del 20 maggio 2009 intitolato «Alla ricerca di un'etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale», tuttavia il problema sussiste e non lo si può ignorare. Ne va del fondamento di qualunque ethos, soprattutto se nutre ambizioni di universalità. Aspettiamo dunque Belardinelli al prossimo libro. Intanto, apprezziamo le sue giuste considerazioni sulla corretta idea di laicità e sul ruolo sociale della religione: ma il punto non è il ruolo della religione, bensì il posto di Dio nella società.
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