La recente sequenza di avvenimenti che ha intensificato l'attenzione dell'opinione pubblica italiana sulla guerra in Siria, compreso naturalmente il gravare su di essa del fattore religioso, ha indotto un gruppo di artisti e atleti a farsi promotori, attraverso i social network, di una mobilitazione che in altri tempi avremmo definito "pacifista" e che punta soprattutto sullo sdegno per le vittime innocenti (ma quando mai una vittima è colpevole?). Dal 7 aprile in avanti, ognuno degli aderenti ha prodotto un'immagine associata alla frase «Every child is my child» (ogni bambino è il mio bambino) e l'ha diffusa perlopiù via Instagram ( tinyurl.com/ljfflvl ), ma da dovunque lanceremo l'hashtag #everychildismychild il nostro schermo ci ripagherà con un diluvio di link. Infatti l'iniziativa ha attecchito, e i "famosi" stanno contagiando "gli altri" a farla propria, oltre che a condividerla. Sebbene si sia levata anche qualche voce critica, come quella di Michele Monina, scrittore e critico musicale, che su "Linkiesta" ( tinyurl.com/kcv9scv ) stigmatizza decisamente la superficialità che, a suo dire, essa denota rispetto a una tragedia di cui l'opinione pubblica (ma non quella ecclesiale, sottolineo) si è disinteressata per anni.
Apprezzo il fatto che questi miniracconti per immagini siano scritti e realizzati con disciplina. La sceneggiatura prevede, anche per le foto, un ambientazione piuttosto privata: i primi piani, le luci basse, i capelli non pettinati e i volti struccati (che rendono alcuni non immediatamente riconoscibili), il cartello con la frase-chiave scritta a mano. L'espressione è seria, pur senza ostentazione. Nei video si ascolta anche un breve monologo, che recita più o meno: «Voglio dire basta alla guerra in Siria. Ormai non si può più tacere. Ogni bambino è il mio / nostro bambino», e spesso è interpretato in modo convincente. Il messaggio che si vuole trasmettere sembra essere: «Non lo faccio per mettermi ancora una volta in mostra, lo faccio perché ci credo». È già qualcosa.
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