Ci troviamo in una situazione di emergenza e tutti i media sono comprensibilmente occupati da notizie sul nuovo virus; proprio come in una guerra, l'appuntamento più atteso è quello con la quotidiana conta dei malati e dei morti: un bollettino triste, che sfida il nostro ottimismo. La mente umana ha un suo modo per far fronte agli eventi avversi, soprattutto se gravi; la nostra prima necessità è sempre quella di difenderci, negando in qualche modo la gravità di ciò che accade per tenere sotto controllo l'inquietudine e la paura. Come spesso avviene davanti ad un evento collettivo potenzialmente dirompente, la nostra prima risposta è stata una risposta lievemente euforica. Dal punto di vista psicologico si può parlare di un movimento contro-depressivo: quando accade qualcosa di negativo che non possiamo controllare, la nostra mente mette in atto le risorse a sua disposizione per contrastare la tendenza allo scoraggiamento. La prima tra tutte è in questi casi quella di “non drammatizzare”, di attivare le energie positive per allontanare i pensieri più bui nell'attesa che tutto finisca. Questa prima modalità di risposta è favorita dalla definizione, almeno provvisoria, di un tempo: se abbiamo una prospettiva temporale ragionevole possiamo riuscire ad aspettare senza scoraggiarci, inventando modi per non smarrirci e per non farci prendere troppo dalla paura. È questo l'approccio difensivo che ha dato origine all'inesauribile fantasia delle proposte arrivate attraverso la via inedita della rete: flash-mob per sentirsi più vicini facendo musica o battendo le mani alla stessa ora, consigli su come utilizzare creativamente il tempo, appuntamenti via Skype per parlarsi, cantare, fare l'aperitivo a distanza, persino ballare insieme. Proposte creative, divertenti, bellissime. La definizione di un tempo relativamente breve (anche se due o tre settimane possono apparire lunghissime) ci ha permesso finora anche di essere abbastanza pazienti, come si sperimenta facendo la coda al supermercato: lunghe file di gente con la mascherina, ferma senza protestare alla distanza richiesta, capace di aspettare il proprio turno anche per più di un'ora. È implicita l'idea che tutto andrà bene, che tutto tornerà come prima. Ora però, passate le prime settimane, sta prendendo sempre più spazio l'incertezza sui tempi necessari a contenere il virus; incalzano le notizie di morte e le immagini che ci impediscono di negare: prima tra tutte, impressionante, quella della fila di bare dei morti di Bergamo.
Davanti a tutto questo, la difesa di negazione non è più sufficiente: lo si coglie nell'aria, con il diminuire della voglia di organizzare momenti di “resistenza festosa” e l'aumento di una silenziosa preoccupazione. Tutti ora sentiamo di trovarci in una situazione davvero grave e inedita, che apre scenari cui non siamo preparati e ci pone domande più ampie sul nostro modo di vivere. Nessuno pensa più che tutto tornerà come prima. La vita rimane come sospesa: sospesi i progetti che avevamo in cantiere prima della crisi, sospesa la nostra capacità di farne di nuovi. Si tratta ora di accettare e accogliere questo nuovo momento “sospeso”. Il tempo sospeso è sempre difficile, ma può essere dotato di una sua grazia, perché è anche il vero tempo dell'incubazione: parola inquietante, se riferita al virus, ma promettente se la colleghiamo alla possibilità di far germogliare pensieri nuovi, necessari per qualsiasi cambiamento. Forse questo è il tempo di un maggiore silenzio, di un minore affanno di parole. Un tempo in cui rallentare un po' il “fare” ma anche il “dire”; un tempo necessario per “sedimentare”. I pensieri nuovi non amano la fretta: bisogna riscoprire l'attesa, un atteggiamento di resistenza positiva più personale e interiore, necessario perché la paura non generi egoismo e ostilità tra le persone. Da qui potranno nascere i pensieri utili per il tempo lungo; pensieri per ridefinire, dopo lo sconvolgimento di questa esperienza, molte delle cose che davamo per scontate.
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