Era bionda, diafana, esile. La mattina portava una vestaglia impregnata del suo profumo di rosa. Al risveglio ogni giorno il suo viso su di me, sorridente. «Hai dormito bene? Dammi la manina, fammi contare le dita, che nella notte un elfo non te ne abbia rubate…»
Giocava mia madre, e rideva, abbracciandomi, nelle mattine della mia infanzia, i fratelli a scuola, lei tutta per me: la più piccola, quella arrivata tardi, l’ultima sua bambina.
Gioia piena, aprendo gli occhi, la sua faccia, la sua voce: «Vestiamoci, usciamo». Era bella: per strada si voltavano a guardarla. Io dal basso dei miei 110 centimetri di statura fissavo quegli sconosciuti, minacciosa: non potete guardarla, è solo mia.
Vaporosi i capelli, abiti chiari, sulle labbra un rossetto rosa. Il viso di mia madre in quelle primavere l’ho per sempre negli occhi. Si andava, a marzo, tutti gli anni in via Dante, a comprarmi un vestito nuovo per Pasqua. Quel viaggio sul tram 1, lei lieta che guardava distrattamente le vetrine di via Manzoni.
Una felicità poi drammaticamente perduta, per sempre. Ma come la ho incisa nella memoria.
Ho avuto un dono: ho saputo che la gioia piena è possibile. Da bambina, era il viso di mia madre. Da tutta la vita vado cercando ancora quella gioia.
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