Sull'intercity del ritorno a casa viaggia un signore con una vecchia fotocamera digitale. Mezza età, abbigliamento casual, guarda fuori dal finestrino e a ogni stazione, comprese quelle saltate dal treno, scatta due, tre volte. Non inquadra le case ma i cartelli delle località. Forse è un geografo, o un linguista che studia le origini dei nomi, oppure un esteta del territorio che documenta la salute dell'arredo urbano. A me però piace pensare che di quelle immagini farà un collage, un mosaico, degli origami, tipo quelli sui fogli a righe con i bambini che si tengono per mano. Una specie di diario di emozioni in anticipo, da condividere con le persone cui vuol bene: «Andremo qui, là troveremo un posto speciale, poi ci sposteremo più su». Troppe volte invece fissiamo sul telefonino momenti e passioni che non proviamo. Non viviamo l'attimo, lo inseguiamo per poterlo raggiungere, e poi lo raccontiamo senza neanche provare a capire cosa ci dice. Al Louvre c'è chi si mette in coda per la Gioconda, di schiena, interessato solo all'indispensabile selfie. E così rinuncia a lasciarsi raggiungere da quegli occhi che hanno la forza di entrarti dentro. Perché in fondo è sempre una questione di sguardi. Disegnati a matita, incorniciati su una tela, o fermati dal click elettronico di una fotocamera.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: