Pensavo, Sergio... Hai mai fatto caso all'uso abusato della parola “felicità”? E alla convinzione diffusa che la vuole sempre più sinonimo di un appagamento materiale esasperato e compulsivo?
«Altroché. Usata. Abusata. Inflazionata. Stritolata in un lessico popolare che spesso pare comandato da una sorta di pilota automatico della banalità. Un chimerico eufemismo o semplicemente la sfrenata necessità di dispensare ricette mediatiche per assaporarla. Quasi bastasse scartare la stagnola d'un cioccolatino. La vita è dove stai, mi ripetevo quand'ero ragazzo. Persuadendomi di non volere se non il seguito di quella che avevo. Un'altra, diversa, mi sarebbe parsa un abbaglio. Vivevo, allora, ignaro in un rassicurante torpore felice. Ma tra gli anni 30 del Novecento e il secondo Dopoguerra, il segnale che quella spensierata felicità della giovinezza era conclusa, fu quando vidi le mani di mio padre che grattavano inquiete dentro le macerie di un bombardamento. Fino a scoprire il viso di Settimia Merloni, 23 anni, un ferro da stiro tra le dita e un figlio piccolissimo mai più ritrovato».
Vuoi dire, Sergio, che è forse il mutare improvviso dei venti a sparigliare le carte della nostra vera o presunta felicità?
«Inevitabilmente, Ale. Ricordo quando la vita ricominciò all'improvviso. In un'estate con tratti di cielo pieno di baie e dirupi. Ci sorprese la pace a lungo invocata che penetrò dappertutto velocemente, come l'acqua in un terreno arso. E tenue riapparve anche un esile raggio felicità. Per noi confusamente increduli dell'essere ancora al mondo dopo tanto orrore».
Raccontami di una felicità inattesa. In un posto dove non avresti mai pensato di poterla scoprire...
«Mi torna in mente Albert Schweitzer e il nostro incontro laggiù in Africa. “Non volevo un ospedale che andasse su verso il cielo – mi confessò un giorno – ma che stesse sulla terra. È vero, mancavano troppe cose, ma quanto all'acqua c'era la pioggia; quanto alla luce, il sole e la luna; quanto alle persone, un villaggio senza mura di cinta. Vede, le sembrerà assurdo, ma qui c'è una ricchezza che voi altri non riuscite più a vedere perché ne avete troppo abusato. In questo avamposto del dolore, ogni piccola conquista verso la vita ci riempie di amore. E questa è la felicità pura. Perché la vera lebbra del mondo – concluse – è non saperla curare in tempo”. Il punto, Ale, è che non tutti sono disposti a comprendere che chi arrotola le garze di un altro, lo fa anche per curare la propria ferita».
Ma per fortuna, Sergio, al mondo non ci sono solo rabdomanti della felicità a poco prezzo.
«Per fortuna, sì. Perché, quando il dilatarsi dei bisogni interiori ripropone l'antico laico miraggio della felicità terrena, beh, allora entra in gioco la gioia cristiana, che è davvero molto vicina alla felicità eterna. Sai, da bambino all'oratorio salesiano ci ripetevano sempre una frase molto amata da Don Bosco: “Ricordate, il demonio ha paura della gente allegra”. E io – aggiungo – la sana allegria è figlia della felicità. Ora Ale, chiedimi se sono felice. Lo sono. Consapevolmente. Anche grazie a te».
Un lascito prezioso dell'ultimo tratto del percorso terreno di Sergio Zavoli è rappresentato dai suoi “dialoghi familiari” con la moglie Alessandra, giornalista a sua volta, che in questa rubrica offre ai lettori di “Avvenire” sintesi a tema di quelle riflessioni.
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